BIO 2017
Chi ricorda l’Italia agricola?

“Secondo il censimento del 1861, il primo realizzato dal neonato Regno d’Italia, dei 22,182 milioni d’italiani (di cui solo 3,884 milioni sapevano leggere e scrivere, mentre 0,893 milioni sapevano soltanto leggere) erano occupati in agricoltura in 15,361 milioni, pari al 69,25%, con una certa variabilità lungo la penisola.
La percentuale di occupati nell’industria vedeva in testa la Calabria (28,8%), la Campania (23,2%) e la Sicilia (23,1%), quella dell’occupazione in agricoltura era invece più elevata in Valle d’Aosta (90%), Friuli Venezia Giulia (81,8%), Piemonte e Umbria (81,1%).
Considerando un po’ d’indotto e i legami familiari, si può facilmente ritenere che praticamente tutti gli italiani avessero un legame stretto con l’agricoltura.
Il pane costava 40 centesimi al chilo (pari a 1.80 EUR), la pasta 60 (2.70 EUR), il latte 23 (1.03 EUR), il vino 65 (2.92 EUR).

Il decimo censimento, quello del 1961, ci consegna un universo di 50,623 milioni di abitanti e, per la prima volta, vede gli occupati dell’industria (40,4%) e quelli del terziario (30,6%) superare quelli dell’agricoltura (29,0%).
Anche in questo caso, considerando un po’ d’indotto e i legami familiari, si può facilmente ritenere che circa la metà degli italiani avesse un legame stretto con l’agricoltura.
Il pane costava 135 lire al chilo (pari a 1.63 EUR), la pasta 205 lire (2.47 EUR), il latte 86 lire al litro (1.04 EUR), il vino 125 lire (1.51 EUR).

Il censimento 2011 fotografa 59,571 milioni di residenti, di cui 6,230 milioni occupati nell’industria, 4,325 milioni nel commercio, 4,505 milioni nei servizi, 6,680 milioni in altre attività e 1,277 milioni nell’agricoltura, nella pesca e nella silvicoltura, con un peso del 5,54 % sul totale degli occupati.
Va da sé che non è crollato soltanto il numero degli addetti in agricoltura, ma anche quello delle imprese: le 3.023.344 attive nel 1990 erano precipitate a 1.630.420 nel 2010, con una perdita del 46% in vent’anni.
Con l’indotto naturalmente anch’esso ridotto, con i nuclei familiari di dimensioni minori, con il 5% della forza lavoro impegnata nel settore primario è lecito ritenere che ad avere un legame di consuetudine con l’agricoltura siano ormai rimasti pochi italiani.

Quale percezione abbiamo oggi della campagna?

Al di là del luogo comune in base al quale i bambini ritengono che un pollo abbia quattro cosce, che il cotone venga dalle pecore e che gli ortaggi crescano nei supermercati, agricoltura e sistemi di produzione del cibo son sempre meno conosciuti.
La percezione dell’agricoltura da parte dei cittadini è quella veicolata dalla dilagante programmazione televisiva: una grande Disneyland di feste danzanti sull’aia in abiti folk, una continua sagra del bue grasso piuttosto che dell’asparago violetto, un profluvio di piatti tipici e ricette tradizionali, il tutto annaffiato da un bicchiere di buon vino DOCG, l’esperto di turno che disserta sulle eccellenze del territorio prodotte purchessia, sullo sfondo le caprette che fanno ciao.

Le acque potabili
Intanto l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, che pubblica dal 2003 il Rapporto nazionale pesticidi nelle acque, presenta l’edizione 2014, nella quale si legge che sono stati trovati pesticidi nel  56,9% dei 1.355 punti di prelievo delle acque  superficiali e che è risultato contaminato il 31,0% dei 2.145 punti di campionamento delle acque sotterranee (quelle da cui dovrebbero attingere gli acquedotti).
Sono state  trovate 175 sostanze chimiche di sintesi diverse, in crescita rispetto agli  anni  precedenti.  A far la parte del leone sono i diserbanti, ma è in significativo aumento la  presenza  di  anticrittogamici e insetticidi, soprattutto nelle acque sotterranee.
Il rapporto 2013 segnalava che nel 34,4% delle acque superficiali e nel 12,3% di quelle profonde sono stati trovati residui di pesticidi con concentrazioni superiori ai limiti delle acque potabili.

E se intanto qualche eco sull’agricoltura arriva, prevalentemente vaga e spettacolarizzata dai programmi d’intrattenimento, sull’agricoltura biologica al cittadino l’informazione arriva ancora meno.
L’immagine che ne ha è quella, abbastanza confusa, di una romantica e curiosa fattoria di Nonna Papera, ancora più pittoresca di quelle che vede impegnate nelle feste sull’aia. Oppure di figli dei fiori in fuga dalla città.

La vera innovazione è in campagna: nel biologico
Il sistema produttivo biologico, invece, è quanto di più moderno esprima l’agroalimentare italiano.
Occupa oltre 200.000 addetti nelle aziende agricole, in quelle di trasformazione e distribuzione, nelle attività di controllo, assistenza tecnica e nel resto dell’indotto.
Nel 61,8% dei comuni italiani è attiva almeno un’azienda biologica, con concentrazione maggiore nelle regioni centrali e meridionali. In 41 comuni operano oltre 100 aziende biologiche: sono 446 a Noto (SR), 242 a Corigliano Calabro (CS), 241 a Poggio Moiano (RI).
In 55 comuni la superficie agricola biologica supera il 60% di quella totale, in 15 (tutti settentrionali) incide per oltre l’80%. È coltivata con metodi biologici tutta la superficie agricola di Rhêmes Notre-Dame (AO), il 99,5% di quella di Lardirago (PV), il 98,8% di quella di Vaddasca (VA), 10 aziende biologiche coltivano il 95,4% della superficie biologica di Introbio (LC).

Agricoltori giovani e colti
Ha in tasca una laurea o un diploma universitario il 16,8% dei conduttori delle aziende biologiche (con una percentuale tripla della media italiana), ha un diploma di scuola media superiore il 32,2%, quasi il doppio della media.
I conduttori non hanno soltanto un’istruzione superiore, ma sono anche più giovani: il 22% dei responsabili aziendali ha tra i 20 e i 39 anni (più del doppio della media nazionale), ha oltre 65 anni solo il 19,1% dei conduttori biologici, mentre la media italiana è del 37,2%.
Circa il 17% delle aziende biologiche è impegnato in attività connesse (trasformazione, agriturismo, fattoria didattica, fattoria sociale), più di tre volte la media delle aziende agricole italiane; usa strumenti informatici il 15,6% delle aziende (più del quadruplo della media nazionale); il 10,7% ha un sito internet (contro l’1,8% della media) e il 5,2% vende on-line (contro una media nazionale dello 0,7%).

Imprese “di tutto rispetto”
L’estensione media delle aziende biologiche è di 27,7 ettari, più del triplo della superficie media aziendale italiana.

È un sistema d’imprese che all’interno di un quadro di controllo e certificazione europeo ormai coltiva più del 10% dell’intera superficie agricola italiana, senza un grammo di sostanze chimiche di sintesi che inquinino le falde acquifere, che tutela la biodiversità, incrementa la fertilità naturale del suolo, alleva animali al pascolo e produce non solo beni pubblici (tutela ambientale, sviluppo rurale…), ma anche prodotti che sono distribuiti in vendita diretta, nel canale del dettaglio specializzato, nella grande distribuzione, nella ristorazione e vengono esportati con successo in tutto il mondo.

È un sistema che, grazie alla caparbietà e alla competenza dei suoi protagonisti è tecnicamente all’avanguardia.

In questa pubblicazione abbiamo voluto raccogliere una selezione di articoli pubblicati sulle più importanti riviste scientifiche internazionali (debitamente peer reviewed) che confermano anche dal punto di vista della ricerca la fondatezza, la correttezza, la lucidità e la lungimiranza della scelta delle imprese biologiche.
Troverete spunti interessanti sulla tutela della biodiversità e l’impatto sui territori, sulla qualità nutrizionale, sulla sicurezza alimentare per bambini e adulti, sui consumi di energia e sul contributo delle attività agricole al riscaldamento globale.
Niente Nonna Papera o figli dei fiori, insomma.
Però abbiamo le caprette: al 31 dicembre 2013 erano 92.330, sono al pascolo e stanno bene, grazie.


Roberto Pinton



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