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Quanta acqua mangiamo? Un'etichetta per scegliere i cibi a minore impatto idrico

In principio ci dissero che dovevamo limitare il consumo di acqua domestica.
Ken Livingstone, ex sindaco di Londra, rilasciò una memorabile intervista dove invitava i suoi concittadini a tirare meno lo sciacquone. Il sindaco di Bogotà, l'eccentrico Antanas Mockus, decise invece di chiamare le telecamere in casa per mostrare in diretta televisiva come si deve fare una doccia: bagnarsi, chiudere i rubinetti, insaponarsi, e infine sciacquarsi velocemente. Nei giorni scorsi un sindaco olandese ha diramato un ordine piuttosto bizzarro: “Fate la pipì nella doccia per risparmiare l'acqua della toilette”.
Di fronte all'aumento della popolazione mondiale e alla scarsità delle risorse idriche, il messaggio della politica è sempre rivolto all'acqua che esce dai rubinetti di casa nostra: annaffiate poco le piante, oppure annaffiatele con l'acqua della pasta, comperate lavatrici che non sprecano e così via. Eppure secondo l'ultimo rapporto della Fao l'acqua domestica rappresenta soltanto il 7% dell'acqua utilizzata direttamente dagli esseri umani. Il 23% è usata dall'industria, il 70% dall'agricoltura.
E questa è l'acqua virtuale. Acqua nascosta, potremmo dire. Che consumiamo come se fosse illimitata. È l'acqua che serve per produrre i cibi: le uova, la carne, la verdura, le marmellate. Quando gustiamo una pizza consumiamo 1200 litri di acqua che sono serviti per crescere i pomodori, produrre la mozzarella e irrigare il campo di frumento. Un uovo contiene 135 litri. Un hamburger 2400. Una mucca delle campagne emiliane, che produce latte per il parmigiano reggiano, ingerisce quotidianamente 784 litri di acqua blu – ovvero l'acqua convogliata dall'uomo – e 10.735 litri di acqua verde: è l'acqua piovana che fa crescere il foraggio. Se un cibo contiene molta acqua blu è un cibo a grosso impatto idrico, perché prosciuga una risorsa limitata.
Il problema è che un consumatore medio non può conoscere la qualità dell'acqua utilizzata per il cibo che acquista. E gli italiani non sanno che l'Italia è il terzo importatore al mondo di acqua virtuale, dopo Giappone e Messico. Ecco perché sarebbe utile introdurre una etichettatura degli alimenti che indicherebbe quanta acqua verde e blu è contenuta virtualmente nelle lasagne surgelate oppure nel chilo di pasta: insomma, quella che nella letteratura scientifica viene chiamata “impronta idrica”.
È la proposta di due studiose al King's College di Londra, Marta Antonelli e Francesca Greco, allieve del guru mondiale dell'acqua Tony Allan, che hanno curato “L'acqua che mangiamo. Cos'è l'acqua virtuale e come la consumiamo” (edizioni Ambiente, pp 288, euro 25) in uscita il 22 marzo in occasione della Giornata mondiale dell'Acqua proclamata dall'Onu, che quest'anno viene organizzata dalla sede Unesco di Perugia dove è localizzato il World Water Assessment Programme. Con Allan, al quale l'accademia di Stoccolma ha conferito il Water Prize nel 2009, Antonelli e Greco hanno fondato il London Water Research Group, punta di diamante della ricerca mondiale sulle risorse idriche.

È stato calcolato che ogni giorno mangiamo 3496 litri di acqua virtuale – contenuta negli alimenti. Voi andate oltre, e segnalate che noi consumatori dovremmo invece leggere sugli imballaggi dei cibi anche il tipo di acqua utilizzata per questi prodotti altrimenti rischiamo inconsapevolmente di sprecare risorse idriche. Dunque comperare cibo biologico, a km0 e senza pesticidi non è sufficiente?
Non vogliamo certamente colpevolizzare i consumatori ma introdurre una riflessione. Partiamo dai pomodori: quelli prodotti in una zona semidesertica come la Tunisia costano meno dei pomodori coltivati in Campania. Eppure coltivare pomodori in Tunisia comporta uno dispendio di acqua maggiore, e intendiamo acqua blu ovvero immediatamente disponibile dalle falde acquifere che però in quelle zone sono scarse. I pomodori campani invece possono beneficiare non soltanto delle irrigazioni ma anche della cosiddetta acqua verde, ovvero l'acqua piovana, che arriva naturalmente. Maggiore è l'acqua blu usata dagli agricoltori e dagli allevatori e maggiore sarà l'impronta idrica di quel prodotto, ovvero più spreco. L'etichettatura che proponiamo per gli alimenti terrebbe conto proprio del tipo di acqua utilizzata (acqua blu, acqua verde e acqua grigia ovvero acque reflue). Così potremmo sapere ad esempio che un vino potrà pure essere bio, ma se è prodotto in una zona molto secca, e dunque le vigne hanno avuto bisogno di molta irrigazione, il suo impatto idrico risulterà decisamente alto.

La carne risulta essere il cibo più dispendioso dal punto di vista idrico. Un chilo di manzo contiene 35mila litri di acqua virtuale, che deriva soprattutto dalla coltivazione di foraggi e mangimi destinati esclusivamente agli allevamenti. Secondo la Fao il 37% dei cereali prodotti nel mondo è per uso animale, e questa porzione aumenterà di anno in anno. Invitate dunque a mangiare meno carne?
Non vorremmo spingere le persone a diventare vegetariane perché occorre distinguere la qualità dell'acqua virtuale contenuta nella carne. Se una mucca viene allevata al pascolo consumerà virtualmente pochissima acqua blu perché mangerà erbetta cresciuta naturalmente grazie all'acqua piovana (o verde). Se invece la stessa mucca viene rinchiusa in un allevamento dove dovrà alimentarsi esclusivamente di foraggio, il suo impatto idrico sarà molto alto. Questo significa che un pollo a km0 potrebbe contenere molta acqua virtuale – e sprecata – rispetto ad un pollo allevato dal contadino a molti chilometri di distanza. Naturalmente un pollo trasportato nei camion per migliaia di chilometri farà sprecare molta Co2, e infatti l'ideale sarebbe che un giorno al supermercato potremo avere una etichetta integrale incollata a ogni alimento, dove verrà precisata la quantità di carbonio, la qualità delle acque e l'impatto sul suolo. Così sapremo scegliere con consapevolezza. E i produttori dovranno adeguarsi.

Tony Allan è stato il primo a disegnare la mappa della produzione alimentare mondiale seguendo le tracce dell'acqua, sottolineando come l'attuale regime alimentare planetario sia basato ancora sulla falsa percezione che l'acqua sia un bene quasi gratuito. Per sprecare meno risorse idriche dovremmo alzare il loro prezzo?
Il prezzo dell'acqua non riflette mai il suo valore. In alcuni Paesi i governi addirittura la concedono gratuitamente agli agricoltori, come nel Maghreb. Ovunque gli agricoltori ricevono sussidi per mantenere bassi i livelli dei prezzi, e questa è una scelta politica condivisa ovunque a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, e specialmente dall'Occidente dove le grandi multinazionali del cibo sono sempre le stesse dal XIX secolo. Questo ha portato ad un enorme spreco di acqua, perché chi davvero produce gli alimenti non è incentivato a usare tecnologie all'avanguardia per ridurre il consumo idrico. Per esempio in molte zone i campi agricoli sono ancora irrigati a spruzzo, ma la maggior parte dell'acqua evapora prima di raggiungere le piante. L'ideale invece è l'irrigazione a goccia, che arriva direttamente dal terreno. Molte industrie alimentari stanno cominciando a utilizzare anche una sonda molto semplice che infilata nel suolo indica l'umidità: se il campo è ancora umido, non ha senso irrigarlo e dunque è possibile risparmiare acqua blu. Considerazioni ovvie che però gli agricoltori ancora faticano a introdurre anche per i limitati margini di guadagno.

Se i governi cominciassero a vendere l'acqua a prezzi maggiori alle industrie alimentari, agli allevatori e agli agricoltori, aumenterebbero i prezzi del cibo ma si sprecherebbe meno acqua blu. Dobbiamo auspicare questo?
Nessun politico aumenterebbe il prezzo dell'acqua blu, sarebbe la sua rovina. E comunque non avrebbe senso addossare il costo dell'acqua virtuale ai consumatori. Bisognerebbe cominciare a dare valore all'acqua consumandola meno e in maniera più efficiente, con due modalità differenti. La prima è la consapevolezza dei consumatori: Europa e Usa mantengono da decenni il controllo del 70% delle derrate alimentari mondiali, da loro dipende la politica sull'acqua blu. La seconda è la ricerca che le grandi aziende alimentari straniere stanno conducendo sulla riduzione dell'impronta idrica. Si chiama water stewardship (tutela dell'acqua, ndr) e fortunatamente sta entrando nelle politiche aziendali dei grandi marchi: a volte basta spostare una coltivazione da una parte all'altra del mondo per smettere di sfruttare falde in esaurimento e approfittare dell'acqua verde molto disponibile.

(Laura Eduati - www.huffingtonpost.it)

 

 


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