PERCORRENDO LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com ]


Sommario

Prodotti biologici
Se viene da lontano il bio inquina più del convenzionale

Ristorazione
Chefs for peace

Ristorazione
La filosofia buddista ama la cucina italiana


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Prodotti biologici
Se viene da lontano il bio inquina più del convenzionale
Produrre con metodi biologici non è più sufficiente. L'ecocompatibilità di un alimento ora si misura anche in chilometri, o per dirla nella lingua di Albione, in miglia. Infatti, i primi a sostenerlo sono stati gli inglesi che hanno introdotto il "food miles", ossia il concetto di distanza percorsa da un alimento per arrivare dal produttore al consumatore. In termini partici, se un prodotto biologico, ad esempio un grappolo d’uva, una mela piuttosto che una insalatina fors’anche di IV gamma, fanno centinaia se non migliaia di chilometri prima di arrivare al punto di vendita, finiscono per inquinare e consumare risorse energetiche in misura anche maggiore rispetto ai prodotti convenzionali ma distribuiti nei pressi del luogo di produzione. Questo concetto, tutt’altro che vieto, sta affermandosi anche dalle nostre parti poiché la coscienza ambientalista dei consumatori, non solo di quelli innamorati del biologico, sta crescendo unitamente all'amplificazione dell'inquinamento e alla diminuzione delle risorse naturali. Per rendersene conto, basti sapere che l'agricoltura è responsabile solo del 20% dei consumi energetici necessari a produrre e portare un alimento sui banchi di vendita, mentre trasporti e logistica incidono per oltre il 30% sui costi sostenuti dalle imprese agroalimentare. Per citare solamente quelle italiane. La nuova tendenza è pertanto di prestare maggiore attenzione al luogo d’origine dei prodotti, con un risveglio degli acquisti direttamente in azienda o nei market farmers (vedi notizia postata recentemente). Oltre al vantaggio ambientale si ottiene un ulteriore doppio vantaggio economico: prezzi più bassi al consumo, maggiore remunerazione per i produttori.

Ristorazione
Chefs for peace

Che una tavola imbandita, anche la più modesta ed essenziale fosse fonte di aggregazione quando non di calda amicalità non stupisce. E’ cosa risaputa sin dalla notte dei tempi. Tale realtà è stata recentemente riconfermata in occasione del Cous Cous Fest di San Vito lo Capo giunto alla decima edizione. Ma con qualcosa in più. Nei vicoli e sulla bella spiaggia della deliziosa cittadina siciliana è successo, per dirla con un termine da corpo diplomatico, che la “road map” disegnata con fatica per il raggiungimento della pace tra due nazioni nemiche, ha fatto qui un gigantesco balzo in avanti. Per tutti i tre giorni della competizione cuochi israeliani e palestinesi hanno trascorso insieme non solo i momenti di lavoro nelle cucine, ma anche gran parte del tempo libero in hotel, e nel dopo gara, nella la tenda berbera Al Waha, allestita sulla spiaggia dagli organizzatori. «Non sono un politico - ha spiegato lo chef israeliano Eyal Levy - ma di un fatto sono certo: scontri e guerre sono questioni che riguardano i politici. La gente comune, che si tratti di israeliani o palestinesi, arabi o ebrei, vuole una cosa sola: la pace». Esiste un’associazione israeliana, 'Chefs for peace', che si propone di organizzare eventi per cercare di unire le persone. “Lo facciamo sia soprattutto con il cibo - chiarisce Levy - una lingua che tutti sono in grado di comprendere, nonché con i messaggi che cerchiamo di lanciare». In questa occasione ha presentato il cous cous di re Salomone (vincitore della gara) che si rifà alla tradizione biblica, ma con l’aggiunta di un ingrediente proveniente da ciascuno dei Paesi in gara. I palestinesi, dal canto loro, hanno presentato un piatto basato su una varietà particolare di cous cous, il maftul. Quello servito per la gara ha una storia ancora più avvincente: la sua ricetta è infatti stata creata da una cooperativa di 400 donne della Striscia di Gaza, vedove o figlie di vittime del conflitto israelo-palestinese. Lanciato in una delle precedenti edizioni del festival, questo maftul è ora commercializzato anche in Italia grazie al circuito del commercio equo e solidale. Pertanto le donne di questa cooperativa sono così in grado, da sole, di sostenere economicamente tutta la comunità del loro piccolo villaggio.

Ristorazione
La filosofia buddista ama la cucina italiana

La notizia è stata battuta dall’agenzia Ansa e credo valga la pena riprenderla. Nel tempio “Tsukiji Hongan-ji” di Tokio c’è un ristorante di cucina italiana battezzato “Cafe de Shinran”, in riferimento al monaco giapponese fondatore di una delle scuole buddiste più antiche dove vige l’antico motto “Slow Spiritual Life”. Il legame con la nostra cucina va oltre il semplice business, l’insegnamento di Buddha è slow, che riconduce in qualche modo direttamente alla filosofia portata avanti da Slow Food, noto in Giappone anche grazie alla frequente collaborazione con la rivista salutista “Sotokoto”, principale sponsor di questo ristorante italo-buddista. In questa particolare esperienza mistico-culinaria, niente è lasciato al caso, soprattutto per il menù: con un prezzo medio di 1.500/2.000 yen a portata (9-12 euro), è possibile gustare i nostri piatti tipici come vari tipi di pasta fresca fatta a mano, trippa al sugo, tagliata di manzo e insalatone con rucola e formaggi lodigiani. Il tutto è preparato seguendo i dettami delle ricette tradizionali, utilizzando esclusivamente materie prime (sia giapponesi che italiane) di alta qualità assolutamente senza alcun additivo chimico.
“La cucina italiana - spiega il responsabile del Café de Shinran - è quella che più si adatta a uno stile di vita salutare e in sintonia con la natura, filosofia insita nell’insegnamento buddista: semplicità e benessere per corpo e mente”.