PERCORRENDO LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com ]


Sommario

VINI
L’EXPORT VOLA MA… OCCHIO A COSA E DA CHI IMPORTIAMO


PUBBLICI ESERCIZI
LA RISTORAZIONE DEVE CERCARE UN NUOVO MODELLO


SINERGIE ESPOSITIVE
VARATO IL POLO ZOOTECNICO NAZIONALE TRA REGGIO EMILIA E CREMONA

CARNI BIANCHE
L’AVIARIA HA FATTO CORRERE LO STRUZZO


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VINI
L’EXPORT VOLA MA… OCCHIO A COSA E DA CHI IMPORTIAMO
U.S.A: mercato ottimo ma anche “taroccatore” L’euforia di uno spumeggiante Vinitaly potrebbe aver narcotizzato qualche preoccupante realtà

A detta di molti la 40esima edizione del Vinitaly è stata straordinaria tant’è che alcuni importanti esponenti della nostra enologia hanno persino usato l’aggettivo “storica”. Si parla di un aumento del 10%, rispetto al 2005, di contatti e contratti con buyer esteri mentre sono stati 144mila i visitatori che si sono aggirati tra gli 80mila metri quadrati dell’area espositiva occupati da 4.200 espositori provenienti da 30 Paesi. Questi stringatamente i dati conclusivi; superfluo qui commentare i diversi eventi, concorsi, premiazioni, battesimi e restyling di testate del settore eno-gastronomico e di libri che hanno punteggiato la rassegna, anche perché su questo sito verosimilmente se ne scriverà parecchio. Ad un argomento però non è stato, a mio avviso, dato il risalto che merita. Mi riferisco alla stipula di una alleanza tra Vinitaly e Cibus, le due manifestazioni fieristiche leader dell’eno-gastronomia, che si uniscono sinergicamente, pur nel rispetto delle singole competenze, allo scopo di promuovere il made in Italy del food&beverage nel mondo, prima tappa: Cina. Ricordato ciò, una riflessione circa i diffusi entusiasmi raccolti tra gli stand per il successo delle nostre esportazioni enoiche, in particolare negli Usa diventati il nostro principale interlocutore commerciale, è doverosa. I dati dicono che un terzo del fatturato (record) di circa nove miliardi di euro realizzati nel 2005 dai vini italiani è stato ottenuto dalle vendite all'estero che hanno appunto fruttato tre miliardi di euro con una crescita del 3,6%. Cifre documentate dall’ufficio studi di Coldiretti elaborando dati Istat. Per contro, sempre lo scorso anno le importazioni di vino in Italia sono aumentate complessivamente del 6,6 % per un valore di 272,5 milioni di euro da imputare in gran parte agli arrivi di vino proprio dagli Stati Uniti che hanno segnato un aumento esponenziale del 401% per un valore di 41,6 milioni di euro. Si tratta di un andamento quantomeno "bizzarro" spiegabile probabilmente da commerci e triangolazioni sui quali sarebbe opportuno fare chiarezza. «L'aumento degli scambi commerciali, favoriti dalla globalizzazione, apre le porte al rischio di traffici - dicono in Coldiretti - e atti di pirateria e falsificazioni alle quali occorre opporre regole». Insomma, l’Italia sta subendo una sorta di "effetto California", fenomeno che sul nostro mercato non sembra riguardare le provenienze di altri noti Paesi produttori come Cile, Australia e Sud Africa. Nazioni che hanno una presenza modesta; per tutti e tre è lievemente superiore ai 4 milioni di euro, anche se si sono di fatto nostri diretti e forti concorrenti sui mercati internazionali. Il boom dei vini californiani dimostra che nuovi Paesi produttori e nuovi mercati da conquistare sono le due facce della medaglia di una competizione globale che il vino italiano deve affrontare con sapienza. Tuttavia, come accennato, gli Usa sono però diventati nel 2005 il primo mercato di sbocco dei nostri vini con un valore delle esportazioni in crescita del 4,2 % per un totale di 771,3 milioni di euro, cifra che rappresenta un quarto del valore globale del nostro export, ormai superiore a quello realizzato in Germania, tradizionale mercato degli acquisti ma che oggi mostra un segno meno (in valore) del 4,5% . Diminuizione segnalata anche in Giappone dove il calo è del 9,4 % per un valore sceso a 94,7 milioni di euro. I nostri vini, peraltro, non sono ancora riusciti a conquistare mercati emergenti quali Cina ed India mentre segnali positivi si registrano in Russia con vendite per 31,5 milioni di euro (+ 50,7%). Se questo è uno spaccato relativamente confortante della bilancia export-import (vedi tabella), è però a rischio l'immagine dei nostri vini che va preservata e difesa dalle imitazioni. Tornando agli Usa, che come detto è oggi per noi il mercato più ricettivo, giusto rammentare che in pari tempo è anche il più allarmante. Infatti, secondo una recente indagine risulta che negli Stati Uniti una bottiglia di vino italiano su due è "falsa". Non è davvero difficile imbattersi in stravaganti bottiglie di Chianti o di Refosco, di Sangiovese e persino di Barbera Rosé, oltre che di Barolo e “Super Piemontese” prodotti in California, così come di Moscato e di Malvasia con Doc californiane “made” in Sonoma County o Napa Valley. Falsi che non solo circolano nei market, nei ristoranti e wine bar dei vari States, ma escono tranquillamente dai confini statunitensi e sbarcano in parecchi Paesi dove è semplice spacciare vini locali come italiani.




PUBBLICI ESERCIZI
LA RISTORAZIONE DEVE CERCARE UN NUOVO MODELLO
Gran parte della ristorazione nazionale è indifferenziata ma comunque sempre molto costosa


In altra parte di questo sito ho dato notizia della nomina del nuovo presidente della Federazione Italiana Pubblici Esercizi (Fipe) nella persona di Lino Stoppani. Ora, presentata all’osservatorio TradeLab, l’ufficio studi della Federazione ha illustrato un’analisi riguardante il futuro della ristorazione italiana alla luce di alcuni profondi mutamenti strutturali delle nostre abitudini alimentari. In estrema sintesi lo studio evidenzia un problema di non trascurabile importanza per gli operatori del settore: segmentare l’offerta per non rischiare la débacle. In altri termini scegliere un modello più consono ai tempi attuali e futuri. Brutalmente schietto il panorama attuale, esistono circa 85.000 ristoranti, 5mila sono da considerare di alto livello più o meno autenticati dalle varie guide, altri 5mila sono di proprietà o comunque affiliati a insegne della ristorazione rapida, mentre gli altri 75.000 sono una sorta di coacervo indifferenziato di ristoranti, trattorie, pizzerie tradizionali senza un futuro ben chiaro poiché sono costosi (in qualche caso anche molto costosi) per coloro che non possono spendere, oppure offrono poco o quasi niente sia in cucina sia in termini di servizio per chi, al contrario, può spendere. Osservando il panorama fuori confine, l’analisi ha preso in considerazione il modello anglosassone che per contro è strutturato in maniera quasi radicale: una piccola parte è composta di locali (e cucina) di alta classe mentre la stragrande maggioranza si rifà ad una ristorazione perlopiù etnica, veloce e generalmente economica. Più vicino ai nostri stili è la ristorazione francese ben segmentata e ben individuabile per tipologia. L’imperativo quindi è segmentarsi o se si preferisce caratterizzarsi. Occorre prendere atto dei cambiamenti e del nuovo modo di porsi del commensale come, ad esempio, rendersi conto che il pasto principale è ormai quello serale relegando il pranzo ad un ruolo meramente funzionale. E ancora, salvo eccezioni, lo stesso pranzo serale è generalmente ormai composto da due sole portate, ergo i ristoranti dovranno considerare di vendere piatti e non pasti completi e necessariamente studiare menu, e relativi prezzi, adeguati. Altra considerazione (augurandoci una inversione di tendenza) è l’attuale crollo dei consumi di frutta e ortaggi; sono pressoché spariti i contorni e la frutta al ristorante o viene offerta eleboratissima e costosissima oppure nel cesto (che peraltro non c’è mai) si ha una scelta miserrima. Va da sé che l’analisi della Federazione che auspica il cambiamento e la scelta di un modello più appropriato vale soprattutto per le metropoli mentre in provincia e nel Sud del Paese sarà assai difficile che venga seguita l’indicazione. C’è da dire che fortunatamente in questi posti, almeno per ora, i prezzi per mangiare fuori casa sono molto più accessibili.


SINERGIE ESPOSITIVE
VARATO IL POLO ZOOTECNICO NAZIONALE TRA REGGIO EMILIA E CREMONA
La rassegna Suinitalia svoltasi alla Fiera di Cremona funge da controprova della validità del progetto


Nell’immaginario collettivo per gli italiani, ma non solo, i maiali hanno residenza in Emilia Romagna, più precisamente sull’asse Parma-Reggio-Modena. E’ ancora così, ma solo in parte, nel senso che in quell’area attualmente si macella, si trasforma e si pongono a maturazione salami e prosciutti mentre in Lombardia prevalentemente si alleva. Infatti, il comparto suinicolo in Lombardia vale 905 milioni di euro, produce oltre 760 mila tonnellate di carni e vanta 2.200 allevamenti. «A ciò occorre sommare l'indotto - spiega Viviana Beccalossi, vicepresidente e assessore all'Agricoltura della Regione Lombardia - generato da 28 industrie di macellazione e dai 569 laboratori di trasformazione che portano a raggiungere un valore complessivo di 4 miliardi di euro». Opportuno quindi che le due Regioni si incontrassero focalizzandosi sui due Centri fieristici di Cremona e Reggio Emilia varando il maggior polo fieristico zootecnico italiano. Scelta intelligente e felice sia per il livello qualitativo delle manifestazioni, sia per l'elevata professionalità che i due soggetti organizzatori hanno acquisito in questo settore. La rassegna Suinitalia 2006 ha funto da banco di prova della validità e necessità del progetto di fusione sinergica in quanto si è trattato di una manifestazione con nuovi contenuti fondati sull’ottima esperienza dei due centri nel settore della zootecnia riunendo per la prima volta, in questo frangente, l'intera filiera della carne suina, dall'allevamento al prodotto finito. Questa formula innovativa è stata studiata per rispondere all'esigenza di un maggior coordinamento e collaborazione, soprattutto in un momento in cui
è indispensabile esprimere con forza e documentatamente, qualità, sicurezza e trasparenza dei processi produttivi dei prodotti italiani.


CARNI BIANCHE
L’AVIARIA HA FATTO CORRERE LO STRUZZO

La psicosi collettiva per l'influenza aviaria è, fortunatamente, in fase di dissolvimento. Sappiamo tutti i gravi danni soprattutto economici che ha procurato al settore avicolo. A compensare, seppure in piccola parte, giungono buone notizie da un comparto di nicchia rappresentato dall'allevamento degli struzzi che stante la chiusura di gran parte di essi dopo il boom degli Anni ’98-’99 fatica a far fronte alla domanda proveniente dal mercato. Negli ultimi mesi i consumi sono cresciuti del 20-30% anche se esistono ancora notevoli resistenze al consumo delle loro carni dovuto in parte al prezzo, in parte alla non omogenea disponibilità sul territorio ma soprattutto alla non conoscenza del prodotto. La carne di struzzo, in particolare le parti nobili, oltre che gustosa è perfetta per l’alimentazione moderna in quanto praticamente priva di colesterolo. Alla distribuzione sono interessati alcuni punti vendita specializzati e diverse insegne della Gdo che assorbono il 10% della produzione totale nazionale. Il mercato vale circa 15 milioni di euro l'anno, con una media di circa 8.500 capi macellati. Lo sostiene l’Assostruzzi, associazione nata da circa 18 mesi che riunisce 15 allevatori per lo più di piccole e medie dimensioni presenti soprattutto nel Nord Italia. Attualmente il numero degli allevamenti si aggira intorno ai 250-300 rispetto ai 3.300 di una decina d’anni fa. Oltre che sulla carne, impiegata anche per gli insaccati, il mercato è basato anche sulle uova utilizzate soprattutto per la riproduzione e sulla pelle. I prodotti in pelle di struzzo sono esportati prevalentemente in Giappone e Corea, mentre in Italia il mercato è ancora poco ricettivo anche a causa dei prezzi al mq piuttosto elevati.