PERCORRENDO LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com ]

POLEMICHE
L’ICE (CON RAGIONE) DICE NO A VINEXPO

Un certo numero di vini italiani erano comunque presenti a Bordeaux all’edizione 2005 di Vinexpo. Ma non massicciamente, né organizzati dell’Istituto del Commercio Estero (Ice) che aveva predisposto una nostra partecipazione maiuscola prenotando per tempo spazi e location adeguate per mostrare agli operatori provenienti da tutto il mondo (le previsioni indicavano 45.000 persone provenienti da 140 Paesi) il meglio della nostra enologia, sia in termini di prodotto sia del contesto vitivinicolo nazionale che ha, in gran parte, raggiunto livelli d’eccellenza. Ma così non è stato.
Cos’è successo? In pratica Vinexpo, marchio de “Le Salon international du vin et des spiriteux” che appartiene per il 50% alla Camera di commercio di Bordeaux, per il 20% a Sopexa e per il 20% al Comune di Bordeaux , non ha rispettato precise clausole contrattuali sottoscritte ed ha relegato l’Italia, nonostante i rammarichi di maniera del segretario generale, Monsieur Robert Beynat, in una posizione mortificante. Una brutta storia, che ha innescato roventi polemiche e minacce di risarcimento di danni che certamente non depongono a favore dell’immagine di questa rassegna valutata di spessore mondiale, ma che nei fatti - quantomeno nei confronti dell’Italia - si è comportata organizzativamente alla stregua di una sagra paesana. Permeata, inoltre, da una patina di sciovinismo duro a morire.
Il perché della ferma rinuncia dell’Ice è semplice ancorché coerente. Per quest’edizione l'Istituto aveva programmato per le imprese italiane una visibilità molto marcata, e per far ciò s’era mosso per tempo prenotando, oltre un anno e mezzo fa, un'area centrale nel Padiglione Italia di 1.100 metri quadrati così da raggruppare finalmente il panorama della vitivinicoltura nazionale evitando la parcellizzazione cui era stata costretta nelle precedenti edizioni. Inoltre, c’era da porre in evidenza un’iniziativa importante: il progetto “Origine”, teso alla promozione internazionale dei vitigni autoctoni italiani e la relativa esposizione-degustazione di questi vini strettamente legati al territorio, (promemoria: il terroir non è patrimonio esclusivo dei “cugini” d’Oltralpe). Integrando questo contesto con una serie di eventi collaterali quali la promozione degli stessi nella ristorazione d'eccellenza della città e della provincia girondina ed altre attività culturali e folkloristiche che l’avrebbero appunto coinvolte.
Peccato, poiché francamente è stata una delle rare volte che il nostro Istituto si era adoperato con forte determinazione e meticolosa preparazione per il settore recependo i fattori chiave di cui necessita: “fare sistema” e un’energica “lucidatura” d’immagine per tamponare la forte concorrenza internazionale che da sempre sa usare con sapienza (assai meglio di noi) gli strumenti del marketing e della comunicazione.
Siamo concreti: se non fosse per questi validi motivi, il solo mercato francese (meno del 3% del nostro export vinicolo ) non avrebbe di certo giustificato l'investimento progettato dall'Ice. Perciò questo brusco e scorretto comportamento degli organizzatori francesi hanno vanificato, perlomeno in questa sede, il progetto di comunicazione globale intrapreso. Alla luce di ciò è credibile che a Lorsignori il desiderio d’imprimere un maggiore risalto alla nostra vitivinicoltura non sia piaciuto temendo un’erosione delle vendite sui mercati internazionali dei loro vini. Pertanto l’operazione messa in atto dall’Ice è franata quando gli organizzatori hanno risposto negativamente alla conferma delle prenotazioni accampando banali scuse nonostante le precise stipule contrattuali. Per di più, tutto ciò praticamente a ridosso dell’apertura dei cancelli causando notevoli e onerosi problemi pratici: annullamento di prenotazioni di allestitori, trasportatori, aerei, treni, alberghi, personale, assicurazioni, materiali pubblicitari, ecc.
E’ verosimile immaginare che nel futuro l'Italia non sarà più uno dei maggiori clienti della rassegna girondina; le 140 aziende nazionali previste quest’anno che pur avevano budegettato una spesa di 620 euro al mq, oltre ad un finanziamento statale pari al 40% delle spese complessive, ricorderanno per un pezzo questo “gentile” trattamento. E pensare che lo slogan adottato anni fa per sottolineare lo stile della rassegna così recita: "Savoir Boire Savoir Vivre". Ironico no?.¦


NICCHIE AROMATICHE
BASILICO LIGURE: DOP AGOGNATA

Contrariamente a quanto dicono e scrivono in molti, va precisato che la Dop per il basilico ligure non è (giugno 2005) ancora ufficializzata pur se la certificazione, che normativamente dovrà apparire sulla Gazzetta Ufficiale della Ue, è alle viste.
Le origini dell’Ocimum basilicum, nome di origine greca del comune basilico sono asiatiche, precisamente dell’Asia Minore . Poi, col tempo, è giunto dalle nostre parti trovando in Provenza, ma particolarmente in Liguria l’area d’attecchimento più favorevole, tant’è che sono in molti a credere che le sue radici siano appunto liguri. Di certo la varietà più pregiata è propria di questa zona. Lo hanno riconosciuto anche in sede Ue stanno per siglare definitivamente il conferimento del sigillo europeo di Denominazione di origine protetta (Dop), riconoscimento che lo pone, anche giuridicamente, parecchi gradini più in alto rispetto alle molte varietà coltivate altrove. Come accennato, il decreto di protezione temporanea, passaggio legislativo obbligato che precede il conferimento ufficiale della denominazione è già stato concesso da tempo.
Sono circa ottanta le aziende liguri che lo coltivano su una superficie coperta di 170.000 mq, e in piano campo su un’area di 235.000 mq. Attualmente si stima che le superfici complessive abbiano comunque raggiunto i 60 ettari. La produzione media è di 800/1000 ql per ettaro al coperto e 400/500 in pieno campo, il tutto per un giro d’affari di oltre 500 milioni di euro.
Quanto alla distribuzione, il basilico, a secondo della stagione, viene proposto sia in foglie confezionate in vaschette sia a mazzetti con radici per il trapianto, prevalentemente per la Gdo e l’ingrosso ortofrutticolo, oppure sfuso semilavorato per l’industria che lo utilizza come aromatizzante.
Se per il basilico il conferimento è davvero imminente, ci vorrà invece più tempo per l’approvazione della denominazione per il pesto. «La richiesta - spiegano all’Assessorato agricoltura di Genova - è già stata inoltrata ai sensi dell'art. 5 del reg. Cee n. 2081/92, tuttavia, essendo una salsa preparata rigorosamente con il nostro basilico ma anche, ovviamente, con altri ingredienti, fu in un primo tempo declassato a specialità protetta. Unitamente al Consorzio di Tutela, abbiamo rifiutato tale classificazione e con l’ autorevole appoggio del nostro Ministero delle Politiche agricole il contesto verrà ridiscusso in sede comunitaria dove certamente ne verremo a capo».¦


CONCORRENZA
I RETAILER SFIDANO LA RISTORAZIONE TRADIZIONALE

In un articolo postato in questa rubrica recentemente (vedi “La tavola è sempre più extradomestica”) scrivevo di una tendenza, indagata e fatta emergere da una ricerca di Nielsen, riguardo la crescente invasione dei nuovi “non luoghi” dove mangiare e bere apparentemente avulsi dalla ristorazione tradizionale ma che, al contrario, stanno proliferando incontrando il gradimento dei consumatori-commensali. Molte le ragioni: oltre al dinamico mutamento degli stili di vita che contemplano condizioni di lavoro, fruizione del tempo libero, assetti e composizioni famigliari eterogenee, parecchio incide il fattore economico alla luce della stretta congiunturale che grava anche sui prezzi delle consumazioni nei bar, caffè, ristoranti, pizzerie, ecc.
Il fenomeno, sia in Europa sia Oltreoceano, non è certo nuovo, tuttavia dalle nostre parti è un segnale che merita un’attenta considerazione da parte non solo di chi si occupa di servizi, ma anche gli operatori dell’intera filiera agroalimentare che trovano in fase di commercializzazione interlocutori nuovi con esigenze differenti da quelle sino a ierlaltro consolidate. Se appunto sino a ieri per gli italiani i “luoghi” del pranzo o della cena erano codificati nei locali deputati (comprese, laddove ancora esistono, le mense aziendali) sta ora invece accadendo che si consumano cibi e bevande un po’ dappertutto ad ogni ora del giorno e della notte scardinando certezze acquisite.
Va da sé che il business della somministrazione non poteva non interessare chi per mestiere vende (soprattutto) prodotti alimentari. Mi riferisco alla grande distribuzione organizzata (Gdo) che sta rapidamente aggiungendo alla naturale offerta di cibo da elaborare e consumare a casa, proposte di ristorazione in proprio. Ecco allora che le catene diventano anche bar e ristoranti con un proprio nome, con layout ben identificabili e con un’offerta gastronomica (anche se ancora da mettere a punto) interessante e varia, oltre che economica. Giusto precisare che non si tratta di quei punti di ristoro già peraltro presenti nei mall di iper e supermercati, ma di altri sistemati “all’interno” degli stessi, ossia di proprietà e gestione delle rispettive insegne.
Qualche esempio tanto per rammentare le ultime istallazioni. Esselunga nei suoi nuovi superstore ha inserito i bar “Atlantic”; al Gigante esistono quattro o cinque varianti - in termini di dimensione e di offerta gastronomica - di ristoranti a nome “A modo mio”; Coop risponde con bar a marchio proprio; Metro, primo cash and carry ad applicare questa iniziativa, ha recentemente inaugurato alle porte di Milano un format di bar-ristorante a insegna “Columbus”; e ancora, Ikea sta sviluppando all’interno dei suoi punti vendita (prima delle casse già esistono con offerte di prodotti italo-svedesi) chioschi-bar con snack caldi e freddi proponendo, quantomeno in fase di lancio, sconti consistenti sulle consumazioni. Nei suoi magazzini La Rinascente ha sempre avuto un’area ristoro; oggi è stata ridisegnata e ampliata sia in termini di spazio sia di offerta con servizio svolto da eleganti barman e barmaid molto professionali. Si pranza anche alla Standa: nel punto di vendita di via Torino, a Milano, si mangia come al bar e si spende praticamente la metà. Il prezzo medio dei piatti di gastronomia industriale è di 3 euro; in un bar della zona si spendono per le stesse cose 5 euro, ossia ben 4.000 delle vecchie lirette in meno.
Si potrebbe continuare citando iniziative di altre insegne che, ripeto, meritano attenzione specie in considerazione del ventilato prolungamento degli orari di chiusura dei market se non addirittura di aperture ininterrotte 24 ore, sette giorni su sette. Un settore in continuo divenire quindi, che cambierà ulteriormente sia i “luoghi” dove mangiare, sia modalità, orari ma soprattutto gusti e sapori.
Per gli estimatori della buona tavola questi insediamenti, non soltanto logistici, sono drammatici. Coloro che possono incidere in qualche modo nel sistema-forniture si rimbocchino le maniche per trovare leve e strategie affinché questo dramma sia quantomeno ammortizzato da un’offerta di buoni prodotti di sicura qualità.
Di certo in questi “non luoghi” difficilmente troveremo, tanto per fare degli esempi, il violino di capra bionda dell’Adamello o il Barbaresco di Angelo Gaja, e neppure l’autentico formaggio di fossa piuttosto che la costata di chianina o il piccione di Bresse. Non è la loro sede. Questi e altri tesori dell’enologia e della gastronomia che Iddio ce li conservi; tuttavia facciamocene una ragione. Il vero business dell’alimentare, quello con tanti, tanti zeri, non è fatto da questi prodotti: abita da un’altra parte.?


CONSUMI BIRRA
SPUMEGGIA UN PO’ SOLTANTO SE C’E’ IL SOLLEONE

Negli ultimi 30/40 anni l’industria alimentare e delle bevande ci ha fatto mangiare e bere praticamente di tutto, cose che le generazioni precedenti manco immaginavano potessero esistere o essere concepite. Eppure, chissà perché, la più antica bevanda alcolica inventata (per caso) dall’uomo ben oltre 5mila anni fa, per noi italiani resta una bevanda pressoché sconosciuta da assumere prevalentemente quando il termometro segna almeno 30°come “spegnisete”, alla stregua di un banale soft drink e non come un alimento qual é.
Infatti, il mercato della birra in Italia è un caso da lettino d’analisi. Scorre copiosa da Capo Nord alla Patagonia ma dalle nostre parti i consumi sono un misero rigagnolo. Capire le motivazioni del persistente mancato sviluppo non è cosa facile, da decenni Heineken ,Peroni, Carlsberg, Forst, imprese che operano e producono sul nostro mercato, né tempo fa né ora che appartengono tutte (salvo Forst) a potenti multinazionali, non sono mai riuscite a far lievitare i consumi oltre la soglia dei 30 litri pro capite a fronte di un consumo medio europeo di 80 litri. Eppure l’industria brassicola, nella sua accezione è un’entità vivace; ad esempio in tempi non sospetti è stata la prima a fiutare la globalizzazione dei mercati attivando operazioni di merger & acquisition tra aziende creando colossali gruppi capaci di fare masse critiche e utilizzare sinergie; questo assai prima dell’industria automobilistica, di quella farmaceutica, delle comunicazioni, ecc. Ciò significa che al suo interno alleva un management con periscopi potenti quantomeno dal punto di vista della finanza industriale.
Anche in fatto di tecnologie i birrai non sono certo arretrati; sempre per fare degli esempi, si pensi che il frigorifero (certo un po’ più grande di quello di casa nostra, ma con gli stessi principi di refrigerazione) l’ha inventato appunto un tecnico birraio, Karl Paul von Linde, ingegnere di un birrificio monacense. Invenzione che permette la produzione e soprattutto la conservazione a bassissime temperature, fattore indispensabile per i birrai che prima di allora utilizzavano neve e ghiaccio trasportati con fatica dai monti. Industria quindi molto creativa anche riguardo l’edilizia industriale; in Europa ci sono ancora fabbriche di birra oggetto di studio da parte di istituti di belle arti. Notevoli inoltre le applicazioni in campo logistico e della movimentazione delle merci: dai pittoreschi carri con le botti trainati da possenti cavalli ai primi Tir refrigerati. Insomma un’industria all’avanguardia per nulla sprovveduta che ha elevato un prodotto invero “povero” (più del 90% è composto semplicemente da acqua) da casalingo, prima, ad artigianale poi - anni addietro preparato esclusivamente dalle donne di casa e da qualche ordine religioso - ad un bene planetario di larghissimo consumo.
Tornando alle difficoltà del mercato italiano c’è da sottolineare un paradosso che, semmai fosse necessario, rende ancora più anacronistica la modestia dei nostri consumi: siamo l’unico Paese al mondo - sottolineo “l’unico” - che ha a disposizione oltre 500 etichette di birre provenienti dai quattro angoli del Pianeta. Una “pivo” russa? Presente. Una giamaicana, messicana, cinese, neozelandese, nipponica, oppure svedese, finnica, statunitense, olandese oltre che banalmente tedesca, belga, austriaca, svizzera? Tutte, e molte altre, presenti e disponibili. Delle due l’una: o facciamo come l’asino di Buridano che nell’imbarazzo della scelta si lasciò morire di fame, oppure agli italiani la birra non piace più di tanto. E sì che si è provato di tutto, si pensi alla proliferazione di locali dedicati a Gambrinus che punteggiano la Penisola (fenomeno ora però in fase recessiva), british e irish pub, brasserie francofone, stube e Gemütlichkeit d’ispirazione teutonica, imitazioni di estaminée fiamminghi e di bruìn café olandesi, nonché di saloon americaneggianti e australiani. Macché, consumi ingessati. E che dire della grande distribuzione che presa anch’essa dall’euforia birrofila (e dalle marginalità interessanti) ha ampliato notevolmente gli scaffali proponendo un nutrito numero di etichette di marca assieme a numerose birre di prezzo con nomi di fantasia. Ma soltanto per il trimestre giugno- agosto, e anche in questo caso senza scalfire il consuntivo dei consumi. E il fenomeno delle birrerie artigianali sorrette, invero, più dalla passione e dall’entusiasmo di giovani pseudo mastribirrai che da una vera e propria professionalità? Anche in questo caso poche centinaia di ettolitri che pur sfuggendo alle statistiche ufficiali non spostano il problema.
Non è compito della stampa ergersi a esperta di marketing, tuttavia oggettivamente alcune cose vanno rilevate.
Primo: nessuno o pochissimi italiani sanno davvero cos’è la birra, di cosa è fatta e come è preparata; per i più è semplicemente “bionda” o “scura” mentre esistono infinite tipologie o style che dir si voglia con colorazioni, sapori e gusti molto diversi tra loro. Nessuna grande, piccola o media industria che con forza ne sottolinei le caratteristiche organolettiche e alimentari, che la evidenzi quale bevanda davvero naturale (forse l’unica assieme all’acqua di fonte), il limitato tenore alcolico, le molteplici abbinabilità alla nostra cucina e a quella di altri Paesi. La nuova modernità della birra è sicuramente, seppur confusamente, percepita dalle nuove generazioni, tuttavia manca il “sapere”, la storia, la socialità, la salute, mentre è esaltato soltanto il senso edonistico.
Secondo: i superficiali indicano il vino quale acerrimo concorrente della birra (“Siamo una nazione di cultura enoica, che c’entra la birra”) ? Però in Francia, che è altrettanto Paese vinicolo, di birra ne bevono 60 litri a testa.
Terzo: i prezzi. Cara, troppo cara specie nei pubblici esercizi dove peraltro è generalmente servita in modo pessimo, troppo fredda, troppo calda, senza schiuma, in bicchieri inadeguati, facendo pagare come “straniera” una birra prodotta invece sotto casa.
Quarto: comunicazione e azioni di promotion attivate solo a primavera inoltrata e in estate quando oggettivamente sono superflue poiché, osservando il grafico dei consumi, risulta che il picco si ha proprio in questi tre mesi. Inoltre, advertising e spot sono pensati esclusivamente per un target giovanile mentre i consumi si dividono equamente (50% esatti) tra fuori casa e domestici laddove è verosimile ci vivano anche degli over 40.
Per concludere, credo sia attualissimo il vecchio slogan lanciato da Renzo Arbore, credibile testimonial per l’intelligente campagna birraia di una quindicina d’anni fa : “Meditate gente, meditate”. Esortazione che vale sia per produttori e importatori sia per i consumatori.



STILI ALIMENTARI
L’ETNO FOOD VA AL GALOPPO


Se spaghetti, olio d’oliva e parmigiano, prosciutti di Parma e San Daniele sono gli ambasciatori della nostra cultura alimentare nel mondo, couscous, tandoori, sushi, feijolada, paella, wanton, kebab, moussaka, eccetera rappresentano i popoli da cui provengono.
Con buona pace dei sostenitori della pur insuperabile dieta mediterranea, l’etno food avanza spedito anche da noi. Cibi etnici quindi, e non solo come fatto culturale ma anche come business dal trend ogni giorno più maiuscolo. Rispetto ad altri Paesi europei, in Italia lo sviluppo di questo mercato è ancora agli inizi. Ma non si pensi che i vincoli allo sviluppo siano causati dalla nostra forte tradizione culinaria. Altrimenti che dire della Francia, dove è altrettanto innegabile tale tradizione ma che ha un mercato di cibarie straniere ultra miliardario? Per tacere dell’Inghilterra dove, se è pur vero che l’arte culinaria nazionale non è esattamente eccelsa, questo settore marcia ad una velocità impressionante. Una risposta credibile può essere data dal fatto che l’ondata migratoria nel Regno Unito, in Francia e in Germania, è più o meno assestata, mentre in Italia è in continuo divenire. Pertanto, i nuovi ospiti più o meno “regolari” che arrivano da noi, avendo generalmente a disposizione pochi soldi non si avvicinano ai “loro” cibi poiché dalle nostre parti sono considerati delicatezze. Fattore appunto superato nelle altre nazioni europee.
Per superare il gap del costo e per favorire lo sviluppo del mercato dei cibi etnici occorre intervengano alcuni fattori, già registrati peraltro in nazioni ad alto tasso immigratorio. In primis, che importatori e distribuzione monitorizzino attentamente potenzialità e tendenze e conseguenzialmente propongano prodotti (che in genere all’origine sono “poveri”) a prezzi più contenuti. Segnali sono già visibili, a partire dagli assortimenti sempre più profondi sugli scaffali della moderna distribuzione e da una migliore evidenziazione agevolata da apposite segnaletiche. Alcune insegne hanno infatti allestito corner dedicati per tacere del numero sempre più elevato di negozi specializzati istallati sia nelle grandi aree urbane sia in centri minori, privati o collegati al mercato dell’”equo e solidale”. Su Internet poi la fioritura di siti dedicati al cibo etnico è vastissima.
Per quanto riguarda poi i consumi fuori casa basta osservare l’esponenziale proliferazione di ristoranti stranieri. Cinesi soprattutto, che sono stati praticamente i pionieri di un etnic food in verità povero, ai giapponesi che con i loro sushi e sashimi hanno imposto una moda. Ma il panorama attuale presenta ormai cucine di tutto il mondo. Insomma, sembrerebbe che i cibi di altri Paesi piacciano agli italiani. Anche i media, sia quelli specializzati sia i generalisti, propongono sempre più spesso ricette esotiche che catturano l’interesse di lettori e lettrici. Sarà forse banale sottolineare che ricercare nuovi sapori e nuovi gusti sono un modo, spesso gratificante, di captare, anche se non proprio comprendere, culture diverse. E ciò, non è di poca importanza.
Che il processo verso questa sorta di melting pot alimentare segua questo percorso, è suffragato da uno studio dell’ufficio ricerche della Dolma, la maggiore azienda italiana operante nel settore, la quale stima che il trend di crescita di questo mercato è di oltre il 20% annuo.
«In effetti siamo ottimisti - spiegano alla Link import, altra società specializzata nell’importazione di cibi e bevande sudamericane -. La controprova è che oltre alle distribuzione all’ingrosso abbiamo aperto a Milano anche un negozio, il Tropical food by Link, che ha la funzione di “vetrina” delle numerose referenze che importiamo. Inoltre, specificamente per i privati, diamo assistenza gastronomica a chi vuole cimentarsi con ricette latino americane».
A casa del colosso elvetico Nestlé il business dell’ethnic food è tenuto sotto costante monitoraggio. All’estero, con il marchio Buitoni, la multinazionale detiene nel settore quote di mercato molto interessanti. Le paste, i sughi, le buste e i precucinati made in Italy riscuotono grande successo, il che sta a significare la padronanza di un marketing specifico ed è verosimile che prima o poi probabilmente con un marchio ad hoc verrà proposto anche sul nostro mercato una serie di cibi etnici.
Specializzazione come quella in possesso della Dolma; i cardini, o meglio, la filosofia con la quale si muove questa azienda è, al contrario probabilmente di altri competitor, di rivolgersi in prima battuta non al consumatore straniero ma all’italiano di ceto medio-alto, quello che viaggia, che legge, che è pronto a sperimentare. Quello che incontrando una cucina diversa non la vive come uno “scontro” ma come un piacevole “incontro” gastronomico e culturale. Credendo in questa politica, Dolma si è posta sul mercato con una gamma di referenze articolata rigorosamente di origine garantita, proponendo una linea, Suzi-Wan, di prodotti cinesi, indiani, tailandesi e indonesiani e un altra, la Uncle Ben’s, di specialità messicane.
L’etnico quindi incontra favori, ma il consumatore si chiede: ci sono rischi nel mangiare questi cibi?
Senza demonizzare questa o quella provenienza si può azzardare che qualche rischio si può correre nella ristorazione cinese, in particolare quella super economica, a causa di importazioni di prodotti che non raramente sfuggono ai controlli sanitari così come alcune materie prime, in particolare certi ortaggi freschi, acquistati nei negozietti etnici. Ciò invece che passa dalla distribuzione organizzata è da conisderarsi sicura per i triplici rigorosi controlli eseguiti dalle Autorità sanitarie, dagli importatori-fornitori e, non ultimo, dalle stesse insegne.


INDUSTRIA
BEL PAESE DELOCALIZZATO


Onde non essere fraintesi, meglio spiegare. Non è che il “bel suolo Italico” ha brandito armi e bagagli ed è emigrato. In questo caso Bel Paese è semplicemente il formaggio prodotto-bandiera della Galbani, nota impresa del made in Italy a tavola che da qualche tempo ha trasferito parte della sua produzione in Slovenia.
Che in casa Galbani ci fosse aria di crisi si sapeva, a complicare le cose il calo generalizzato degli acquisti di alimentari, e quindi delle vendite, in particolare dei prodotti di marca. Problema che certamente non aiuta ad uscire dall’impasse; quantomeno per ora.
A confermare tale preoccupazione si è espresso esplicitamente in Assolombarda, Maurizio Manca, amministratore delegato della società, che ne ha illustrato i risvolti in un incontro tra direzione aziendale e sindacati. La società fondata nel 1882 dal “sciur Egidio” da Ballabio (Lc) è da circa due anni di proprietà del fondo di investimenti inglese BcPartners (in Italia ha interessi anche nelle Pagine Gialle) dopo essere stata lungamente nella mani del gruppo francese Danone.


DISTRIBUZIONE
LATTE APPENA MUNTO SELF SERVICE


Il latte fresco appena munto si potrà acquistare nei distributori automatici che numerosi allevatori hanno iniziato ad installare per offrire direttamente, dalla stalla al consumatore, latte freschissimo, genuino e a costi contenuti. Lo rende noto la Coldiretti precisando che si tratta dell'applicazione di una moderna tecnologia alle opportunità offerte da un decreto che consente agli allevatori di vendere "latte crudo" ottenuto direttamente dalla mungitura senza alcun trattamento termico. A differenza sia del latte fresco pastorizzato sia di quello a lunga conservazione. Queste “vending machine” per la fornitura diretta di latte dalla stalla al consumo stanno prendendo sempre più piede perché conciliano innovazione e tradizione. Al momento del primo "pieno" di latte - viene spiegato - l'allevatore fornisce una bottiglia da un litro che, previo inserimento di una moneta da un euro nella macchina distributrice, viene riempita di latte appena munto che, ovviamente, deve essere in linea con le normative igienico sanitarie in materia di vendita di latte.
Qualora l’iniziativa prendesse piede e questi distributori raggiungessero in numero consistente anche le metropoli (il pessimismo, alla luce del demenziale italico vandalismo imperante è di rigore) risponderebbero positivamente alla domanda di qualità ma anche alla necessità di stabilire uno stretto rapporto di fiducia nella spesa alimentare che ha favorito l'aumento degli acquisti diretti dai produttori agricoli (+10 %) dai quali si stima abbiano comperato quasi tre italiani su quattro. ¦


MOVIMENTAZIONE MERCI
CIRCOLO VIRTUOSO PER GLI IMBALLAGGI PIEGHEVOLI


A incidere sulla spesa degli ortofrutticoli da qualche tempo sotto stretta osservazione da parte del consumatore a causa dei prezzi in costante lievitazione, c’è il costo dei trasporti e della movimentazione delle derrate.
Con l’avvento delle casse pieghevoli qualche risparmio, coltivatori, trasportatori, mercati all’ingrosso e Gdo l’hanno ottenuto anche se chi compra non lo avverte. Oggettivamente va detto che questi nuovi contenitori hanno peculiarità positive: igiene, maneggevolezza, robustezza, impilabilità, facilità di movimentazione, e grazie ai minori ingombri per via della possibilità di richiusura, risparmio degli spazi all’interno di magazzini e piattaforme. Questi i plus più evidenti, cui aggiungere uniformità e stabilità delle tare per tacere dell’ecologica risoluzione delle problematiche di smaltimento necessario invece per le cassette costruite con materiali diversi. Insomma, il sistema del “usa, riusa e ricicla” è ormai parte integrante del comparto anche se non tutti gli attori della filiera ne fanno, per ora, uso.
Tuttavia, nonostante l’informatizzazione adottata dai diversi fornitori in grado di rintracciare virtualmente ogni singola cassetta, stabilirne l’esatta consistenza numerica è oggettivamente difficile. Di certo è un settore in grande fermento poiché malgrado esistano competitor che producono imballi con altri materiali, da più parti si afferma che le cassette richiudibili in plastica sono attrezzi ormai indispensabili. Le stime più credibili indicano in circa 85 milioni le movimentazioni annue per circa 25milioni di pezzi.
La società Ifco, considerata leader, dichiara una movimentazione europea di 156 milioni di casse di cui 32 milioni in Italia, gestite da 6 depositi dislocati lungo la Penisola. Rispetto ad altre politiche commerciali, Ifco noleggia, su cauzione, le sue cassette sia ai singoli produttori sia alle cooperative e ai consorzi. Queste entità comunicano alla società i nominativi e le sedi dei “partner utilizzatori”, ossia le catene del moderno (ad esempio: Sma, Eurospin, Sidis, ecc) presso le quali provvede a ritirarle per gli opportuni lavaggi e sostituzioni accreditando la cauzione versata. Inoltre, ai grandi clienti viene ceduta in comodato gratuito una speciale macchina (150 quelle distribuite) che alla velocità di 800 casse/h, provvede ad aprirle, conformarle e ad accatastarle automaticamente.
Differente la politica commerciale di Cpr system. Essendo una cooperativa che annovera circa 350 soci (35 milioni di movimentazioni per 4 milioni di imballi in circolazione) vende a costi trasparenti le proprie cassette disponibili in 3 formati tutte con sponde abbattibili, reinvestendo gli utili delle vendite e dei servizi nel sistema stesso in un ottica di esclusivo interesse dei soci. Tra i servizi resi, coordinati da un sistema informatico in dotazione a ciascun associato, ovviamente la consegna, il ritiro e il lavaggio di ogni singolo imballo.
Terzo importante player del settore è la Chep che peraltro vanta una lunga esperienza nella fornitura a noleggio di strumenti per la movimentazione delle merci. La politica commerciale rispecchia la consolidata esperienza maturata con i ben noti pallet blu noti nei quattro angoli del mondo, ossia il noleggio. Riguardo ai servizi è stato installato un nuovo impianto di lavaggio e igienizzazione nel centro Italia capace di assolvere l’operazione con una velocità di 1.500 cassette/h.