AGRICOLTURA E DINTORNI

A cura di Luisa Doldi ed Emanuela Stìfano [agricoltura@asa-press.com]


Rapporto FAO: il consumo come atto responsabile


Il numero 1 degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio è “sradicare la povertà estrema e la fame, riducendo della metà tra il 1990 e il 2015 la percentuale di popolazione che soffre la fame”. I dati del 2010 però spaventano, non solo per le cifre che presentano – 1 miliardo di persone circa che soffrono la fame – ma anche perché indicano un peggioramento, nonostante i buoni propositi.
Produrre di più laddove è necessario, ma anche produrre e consumare diversamente dovunque sono probabilmente alcune delle risposte a questa crisi mondiale. E lo studio della FAO “Global food losses and food waste”, presentato di recente, dimostra come ci siano molte possibilità per migliorare l’attuale produzione e distribuzione lungo tutta la catena alimentare, nonché il modo di consumare soprattutto nei paesi più ricchi.
I numeri presentati in tale studio sono impressionanti: “un terzo del cibo prodotto per il consumo umano a livello mondiale - ovvero circa 1,3 miliardi di tonnellate - viene perso o sprecato ogni anno”. Perso se il danno avviene nella fase di produzione (per esempio, perdite nel raccolto) o lungo la catena di approvvigionamento alimentare (per esempio per inadeguatezza delle strutture di elaborazione del cibo), sprecato quando la perdita avviene a livello del consumatore ed è correlata con le sue abitudini alimentari.
In Europa e Nord America gli sprechi di cibo pro capite ammontano a circa 95-115 Kg/anno. Nell’Africa sub-sahariana - una delle zone della terra dove la fame morde maggiormente - questa cifra scende a 6-11 Kg/annui.
In termini di perdite invece in Europa e Nord America siamo a livelli pro capite di 280-300Kg/annui, nell’Africa sub-sahariana e nel sudest asiatico siamo a livelli di 120-170 Kg annui. Per rendersi conto di quanto incisivi possano essere gli sprechi alimentari, basti pensare che essi nei paesi industrializzati (220 milioni di tonnellate) ammontano a circa la stessa quantità della produzione netta di cibo dell’Africa sub-sahariana (230 milioni di tonnellate).
Soluzioni più efficienti lungo la catena di approvvigionamento alimentare sono individuabili e migliorie nel sistema sono possibili. Nei paesi in via di sviluppo, per esempio, le misure da adottare devono avvenire soprattutto a livello di produzione e distribuzione. Qui le tecniche di raccolta, la conservazione post-raccolta, la catena del freddo sono esempi dei più comuni punti deboli.
Diverso il discorso dei paesi industrializzati dove invece è a livello del consumatore - sia al momento dell’acquisto che al momento del consumo - che deve essere portata avanti una azione di educazione e sensibilizzazione.
Nel libro “Waste – Understanding the global food scandal” , l’autore Tristram Stuart riporta la prassi di alcune aziende inglesi in cui, per rispettare standard di “immagine” del prodotto, molte verdure vengono scartate anche se perfettamente idonee al consumo. Adatte al consumo, ma non all’estetica che il mercato si aspetta: questo è sufficiente per farle divenire scarto. “L’abbondanza porta ad enormi scarti nei paesi industrializzati. Probabilmente uno dei motivi principali di questi scarti è semplicemente che i consumatori possono permettersi di acquistare cibo”. Ma gli sprechi, cosi come anche le perdite, non riguardano solo il cibo di per sé, ma sono anche uno spreco ed una perdita dell’energia e della materia prima utilizzate per la produzione del cibo stesso. E poiché oggi anche questi due elementi – energia e risorse naturali - sono merce sempre più rara e preziosa, allora non sprecare diviene imperativo non solo morale, nei confronti di quel miliardo di persone che ancora all’alba del 2015 soffre la fame, ma anche ambientale, nei confronti della scarsità di acqua e suolo che in molte parti della terra è già un problema concreto, oltre che nei confronti di un efficiente uso dell’energia che è uno dei principi base della politica energetica europea.
In quest’ottica, allora, il cibo quotidiano e l’atto del suo consumo - comperare, cucinare, consumare - acquistano una dimensione di responsabilità sociale e ambientale, se svolti con la consapevolezza di tutta la storia, il lavoro, la materia prima che hanno portato alla sua produzione.

A cura di M.Luisa Doldi


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