RASSEGNA STAMPA

PROFUMO DI RESINA

Il forte profumo di resina la colpì. Strano, perché quella era l’abitazione dove viveva e lavorava e ne conosceva ogni angolo e tutti gli odori, specie quelli del pino che avevano usato per realizzare quell’appartamento da dedicare agli ospiti. Insomma, sapeva benissimo che c’era quel profumo di bosco, di legno tagliato. Quella volta, però, mentre stava entrando nella stanza assieme a quelle persone che avevano fatto onore alla cucina, all’ospitalità, e anche al coraggio della sua famiglia, il sentore di resina le era penetrato direttamente nella testa, richiamando alla mente lampi di immagini lontane e di boschi mai percorsi da esseri umani, dove ogni odore aveva un suo spazio preciso, un suo significato, indicava il passare del tempo.
Fu questione di pochi secondi, poi quella sensazione forte di vissuto antico sparì, lasciandole un’emozione strana. Rosanna tornò nel presente, alla conclusione di una piacevole serata in compagnia di vecchie conoscenze e amici nuovi, arrivati lassù per stare assieme, certo, ma anche per sapere, per condividere con lei, con loro, uno spicchio di vita. Abitavano e lavoravano là da quattro anni, quasi un lustro che aveva cambiato la sua vita e quella della sua famiglia. Chissà, se da giovane le avessero proposto di andare ad abitare dove si trovava ora, avrebbe risposto di no, che non se la sentiva proprio di vivere in quella valle, così incuneata nei monti, dove l’estate era fresca ma gli inverni fin troppo ghiacciati, tanto da rendere persino problematico raggiungere il luogo. Eppure, quando Giancarlo, il marito, le aveva prospettato quella novità, che stravolgeva la quotidianità di una esistenza in ogni caso ben vissuta, non aveva avuto dubbi. Lei, cresciuta in campagna, ai bordi di una città non grande ma che in ogni caso le offriva tutto, aveva ascoltato la proposta e ne era stata attratta. In quella stanza dalle travi a vista e dall’intenso aroma di resina, mentre gli ospiti ridevano e chiacchieravano, si ricordò che già allora aveva vissuto ricordi senza tempo che la chiamavano dove ora si trovava. E, ripensandoci, le parve anche di richiamare alla memoria tempi ancora più antichi, e freddi, e desolati e poi caldi, fino al mare.
Sapeva bene come era nata quella valle e come erano sorte quelle montagne, un tempo fondale di un mare tropicale. Proprio dal cortile della sua nuova residenza poteva vedere, in cima alla montagna di fronte, il campanile di Bolca, che richiamava il più straordinario giacimento di pesci fossili tropicali. Ma quella era geologia, mentre i suoi ricordi erano più recenti, sia pure perduti nel tempo, e rivivevano il bosco, i prati, i profumi delle piante e dei fiori, quelle ricchezze che la gente, oggi, non sa neanche di avere e quando le incontra non le riconosce neppure. Lei invece ci viveva in mezzo e ne assaporava il ritmo, i colori, i cambiamenti, di stagione in stagione e dal giorno alla notte. Anche quella sera li aveva avvertiti, quei profumi, proprio mentre preparava la cena per gli ospiti. Anzi, se ci pensava, doveva riconoscere che erano stati proprio i sentori della natura che le avevano suggerito cosa offrire quella sera ai suoi commensali.
Erano gli antichi gnocchetti di pasta dei Cimbri: nulla di più semplice e più gustoso. Li aveva preparati come al solito, eppure nello stesso tempo con una cura attenta agli ingredienti, alla qualità e alle dosi. Aveva aromatizzato dell’acqua con chiodi di garofano e con quella aveva impastato farina, uva e sale. Aveva spezzettato gli gnocchi nell’acqua bollente condendoli poi con menta profumata, piselli, un po’ di sedano, cipolla, tutto dal gusto fresco di orto, e pancetta. I Cimbri, già, quella popolazione venuta dal nord, dal centro Europa, secoli e secoli prima. Erano stati loro a “colonizzare” quei luoghi dimenticati, in nome dei signori della pianura, che li avevano chiamati da altri paesi proprio perché lavorassero la legna e coltivassero i boschi e i terreni là dove pochi, anzi nessuno, se la sentiva di vivere se non per fuggire a qualche castigo. Loro, i Cimbri, si erano adattati bene, anzi benissimo, ed erano di fatto divenuti i padroni di quelle montagne: degli altipiani della Lessinia e di Asiago. Padroni è una parola grossa: i Cimbri non possedeva quei luoghi, che altri rivendicavano. Ma li vivevano. E c’era un confine abbastanza preciso, nonostante le inevitabili commistioni con le genti della pianura: là dove la vita era scomoda i Cimbri avevano campo libero. Non perché fosse un loro diritto, ma piuttosto perché nessuno si sarebbe sognato di condurre il tipo di vita che conducevano loro.
Erano stati loro, aveva letto, a dare il nome a quella contrada dove ora abitava: la Laita, la costa del monte, fresca al mattino ma baciata dal sole dopo mezzogiorno fino al tramonto, che qui arrivava prima, perché le cime delle alture di fronte anticipavano la scomparsa del sole. Un nome che sentiva suo, e mentre ci pensava, di nuovo quelle sensazioni di antico, una sensazione forte di essere parte di quel luogo.
E del resto, se meditava su come era arrivata fin là, si sgomentava di un percorso così arduo quanto altrettanto entusiasmante. In fondo neppure lei e suo marito erano “padroni” del posto. Oggi, più modernamente, lo avevano in affitto, ma tecnicamente non era di loro proprietà, anche se erano loro che gli davano la vita e ne facevano crescere la ricchezza con l’ospitalità. La quale era per tutta la famiglia più una visione del mondo che un lavoro in senso stretto, al punto che erano felici quando avevano lì non solo ospiti che ne apprezzavano le camere, l’appartamento e la cucina, ma anche quando venivano famiglie e scolaresche a vedere come si poteva vivere lietamente in una zona certo bella ma anche all’apparenza scomoda.
Bastava guardare l’orto, per rendersene conto: terreno scosceso, certo fertile e senza le stranezze della valle, ma anche ricco di sassi che chissà se sarebbero mai riusciti ad eliminare del tutto. Ma poi lo voleva ripulire davvero, quel terreno? No, si rese conto, voleva che fosse proprio quello che era e semmai renderlo più bello e più produttivo con la passione che ci metteva nel lavorarlo. Lo stesso era per gli animali: le faraone e i conigli che pure erano una delle sue specialità in cucina, Jo e Jole, i due asini, maschio e femmina, che condividevano quel territorio richiamando coi loro ragli l’attenzione di quanti arrivavano fin lassù. Era strana quella commistione di vite animali così tranquille e pure così “destinate”, secondo natura, quella vera, che vive chi ha il coraggio e la gioia di viverla, non di predicarla e basta.
Di nuovo la prese la sensazione di appartenenza a quel posto, mentre la mente si apriva sull’immagine dello stesso paesaggio, ma profondamente solitario, visto con gli occhi del primo essere vivente passato per di là. Non la turbava quella “visione”, anzi la caricava di emozioni, e continuava a ripetersi, quella sera, facendole rivivere in un breve arco di tempo lo spazio di millenni e, nel suo piccolo, tutta la sua vita.
Ricordava quando, ragazzina ai piedi dei Colli Berici, aveva conosciuto Giancarlo, nell’ambiente di parrocchia. La loro era stata una storia d’amore precoce, ma senza fretta, con il legittimo ostacolo di genitori che certo avevano vissuto una vicenda analoga prima di loro; ma si sa come ci si dimentica di se stessi quando si guarda ai figli, che sembrano sempre troppo giovani e impreparati per una vita da grandi. Ostacoli di poco conto, tuttavia, che non avevano poi né impedito né rallentato il loro sentimento, ma semmai un po’ rarefatto gli incontri. Si erano sposati, infine, quando avevano potuto avere la certezza di un lavoro, ed erano nati tre figli, motivo d’orgoglio. Lui era in definitiva una sorta di impiegato, sia pure con legami e contatti molto forti con il mondo dell’agricoltura. E fu certo da questi, e dalle conoscenze che aveva allacciato, oltre che dalla passione per l’essere padrone unico del proprio futuro, che aveva tratto dapprima il pensiero poi la spinta per cambiare l’esistenza sua e della famiglia.
In questo Rosanna non era mai stata un ostacolo, piuttosto uno sprone, come se appunto anche lei sapesse che quello era un po’ il loro destino, e per lei una specie di ritorno a casa. Quale casa? L’avevano già individuata, là, in alto, un po’ sperduta e abbandonata, la Laita, sulla sponda destra del Righello che scendeva dalla Lessinia. I soldi per comperarla non li avevano, ma spirito e braccia per farla fruttare sì. E così l’avevano presa appunto in affitto, scelta sempre difficile per chi svolge un lavoro agricolo. Chiunque altro avrebbe preso paura, dell’impegno, dei costi e dell’avventura che veniva abbracciata da cinque persone, due adulti e tre figli.
Quando aveva visto il posto, Rosanna se n’era subito invaghita. Non lo aveva affatto trovato ostile bensì affascinate, e aveva voluto imparare a conoscerlo, percorrendone i sentieri anche i più impervi, e informandosi sulla sua storia. Aveva allora saputo da dove derivava il nome del luogo, della cultura dei Cimbri, delle Anguane, le ninfe dei ruscelli e dei fiumi, che non si facevano vedere se non per caso dagli umani. Ma se questi non c’erano, le Anguane giravano liberamente, e chissà che sorpresa per l’Anguana del Righello, quando si era imbattuta nel primo Cimbro che risaliva dalla pianura a fianco del torrente. Rosanna ripensava, a quell’incontro che riviveva dentro di sè, e intanto rideva, quasi dimenticandosi dei suoi ospiti chiacchieroni.
Strana serata, quella. Gli gnocchi, la Laita, le Anguane, la sua famiglia, il fruscio del vento tra gli alberi. E di nuovo quella sensazione di ricordo, che le apparve rapido e altrettanto rapidamente scomparve. L’Anguana, già, rivedeva la scena del suo incontro col Cimbro, e anche dopo. Un incontro di stupore e d’amore, come quello che aveva avuto lei con Giancarlo. Le apparve tutto come in un film: lui che nel freddo della notte andava al torrente, lei che ne usciva, il loro sentimento, la loro passione, la bimba che ne era nata e che subito altre Anguane le avevano portato via perché il frutto di una simile commistione non poteva restare lì. E lei, la madre, che si era disperata fuggendo chissà dove e il torrente che non aveva più la sua ninfa.
Fantasie, pensò assaporando il profumo della notte, troppe fantasie. Però il richiamo a tornare lì lo aveva sentito dannatamente profondo nel suo cuore, dal momento in cui aveva ascoltato la proposta del marito. E se pensava alla sua prima visita alla Laita, doveva ammettere che davvero ne conosceva tutti gli angoli senza esserci mai stata. E poi quei ricordi. Ma si sa, le Anguane non esistono – pensò – sono solo mitologia. La Laita no, esiste, è lì, pronta e ospitale per chi ci vuole andare.

Sebastiano Carron

Questo racconto è stato pubblicato su " Il Giornale di Vicenza" di lunedì 4 luglio 2005.