AZIENDE E PRODOTTI

Tavola rotonda all’Umanitaria: Formaggio da Meditazione, il Bitto storico.
Un treno per Gerola Alta - 25 – 26 Aprile 2009. Alpi Orobiche e la pastorizia - La vita degli alpeggi e latte - L’agricoltura in Montagna - Un caso singolare: un nome proibito ai padri, Bitto - Dall’ospitalità… all’indifferenza

La campagna di presentazione del Bitto storico promossa dall’Associazione produttori “Valli del Bitto”, Slow Food Lombardia, Ruralpini con la collaborazione di Arte da Mangiare e la raccomandazione di Agorà Ambrosiana ed ASA ha avuto una temporanea conclusione milanese con la Tavola rotonda di Sabato 25 Aprile: “Bitto storico: perché un formaggio diventa leggenda?”, svoltasi in sala Fachinetti, dell’Umanitaria, alle 10.30.

La presentazione è introdotta dall’ ing. Mario Bedussi, Consigliere dell’Umanitaria e Presidente di Arte da Mangiare, con un amichevole ringraziamento ad ASA per il sostegno offerto da tanti anni alla comunicazione di incontri di interesse culturale legati alla filiera agro-alimentare nelle stanze dei chioschi. Anche in questa occasione si dichiara felicemente interessato a salvare un progetto di conservazione del patrimonio pastorale, che ha messo a rischio il proprio nome d’identità della preziosa chicca “da meditazione” che allevatori e salvatori conservano in una nicchia di duro lavoro d’alpeggio da secoli.

Mi trovo alla scrivania a Galleno (Galen) di fronte ad una carta del 1625 “Carte et description generale de la Valtoline”, stampata a Parigi da Melchior Tavernier, demeurant en l’ile de palais, regalatami in copia fotografica dal conte Cesare Sertoli Salis che a Tirano aveva dato vita al restauro dell’antico palazzo dei Salis, con i giardini e le cantine di fine cinquecento. Ripresa la viticoltura di montagna di casa, dopo due secoli, con questa “carta” etichettò la versione più popolare dei vini ridati a luce dall’enologo Claudio Introini, grande maestro di cantina, sulla base delle note di enologia negli atti secolari ristudiati nell’archivio di Palazzo.

Nella carta in scala del XVII la “Val del Bitto” corre lungo l’omonimo fiume alpino che sfocia nell’Adda, parallelo al Lesina, poco prima del confine con il Ducato. A monte villaggi e comunità si leggono in Bema sul ramo destro che si ricongiunge poco a monte di Morbegno , e sul sinistro dal confine con il C. di San Marco che comunica con Bergamo e le Venezie, Giruola, Pedesina, Resura, Sacco! L’Adda si attraversa – ancora oggi! – verso la via Valeriana transitando sull’antico ponte romano, verso Ovest per Traina, e si riattraversava verso la valle del Lesina per Delebio che confinava con il Ducato di Milano protetta dal Forte Fuente…

ASA è alla tavola rotonda con il delegato regionale: Enzo Lo Scalzo ha personalmente goduto un rapporto di familiarità con Bitto leggendario dal 1955 a oggi. Ha contribuito al dibattito ricordando l’apporto alla diffusione della cultura sui formaggi italiani rifiorita negli anni 80, favorita dal ruolo e dalle pubblicazioni del Ministero e dalla rivista e Guide dei Ristoranti d’Italia della AIC, diffuse anche internazionalmente a partire dagli anni ’90, per disegno condiviso dal conte Giovanni Nuvoletti Perdomini, Presidente rifondatore della AIC, frequentatore di Morbegno, con soste al Vecchio Fiume. La campagna è durata editorialmente fino al 2007, quella dei formaggi solo fino al 2001. Il leggendario Bitto era stato portato alla ribalta dalla nicchia locale, già in evidenza nel medio evo come i vini di Valtellina, fino alla notorietà tra i grandi di montagna, con Bettelmatt e Castelmagno, Emmenthal e Montasio ed i progenitori d’alpeggio dei Piacentini!

Il professore Michele Corti, animatore fondamentale dell’apporto culturale accademico alla traduzione dei costumi e docente di sistemi pastorali montani all’Università di Milano, ad Agraria, ha presentato con immagini e informazioni magistrali (per la terza volta in otto giorni) dotte e significative notizie sull’origine antica della comunità montana delle valli orobiche, che mettevano in comunicazione il versante territorio grigionese con il confine della Serenissima bergamasca e con lo stato di Milano per gli scambi di merci e alimenti. Attraverso il lago di Como e di Chiavenna la flotta lacustre era destinata agli scambi con il resto d’Europa, mentre attraverso i passi aveva luogo la migrazione a doppio senso di risorse alimentari e di prodotti dell’uomo tra il territorio retico e la pianura padana, con sosta dei formaggi per l’invecchiamento a Como o a Morbegno. Ancora oggi a Morbegno le cantine naturali dei Ciapponi sono un riferimento di bontà di qualità.

Il professore Michele Corti sta per firmare la pubblicazione di un’opera in cui è raccolta larga messe di studi fatti alla Facoltà di Agraria di Milano, curati anche in passato da generosi docenti, tra cui il professore Giorgio Ottogalli e lo stesso Corti. Altri studiosi e storici come Barberis, Capatti, ma soprattutto Claudio Benporat, hanno trasferito in occasione d’incontri ad hoc a pochi appassionati divulgatori (S. Mariotti – Cheesetime e al momento Quale Formaggio), R. Rubino (Anfosc e Caseus), D. Paolini (Il Sole 24 ore), Accademia dei Cavalieri di San Giorgio (Mereghetti e soci), Milano Internazionale della AIC e ASA (G.Colli, E.Bettelli e lo scrivente), Franciacorta in Bianco (R.Lagorio) e Slow Food (P. Sardo, Petrini, e soci) che a loro volta hanno divulgato una cultura alimentare che ha origine dalla civiltà celta o insubrica o walser, come testimonia la storia antropologica del “vecchio” continente, fino alla popolarità delle sagre e delle consorterie!

Il “Trattato dei Latticini” del medico Pantaleone da Confienza, stampato nel 1477 come “Summa lacticinorum”, ripresa dal gruppo di studio di Emilio Faccioli fu un valido contributo alla rinascita editoriale della cultura dei formaggi in Italia. Essa è una pietra miliare nella storia della caseificazione mondiale: era praticata ampiamente in Europa, ma in Italia era strettamente legata alla grande linea medioevale di “alimentazione per la salute”, che dalla Scuola salernitana alle edizioni del Platina di “De honesta voluptate et valetudine” hanno condotto fino all’opera di classificazione metodica dei “latticini” dell’Ottogalli edita da Hoepli, “Atlante dei Formaggi”, testa di serie per una classificazione mondiale da proseguire come avvenne per i funghi con “Omnia Bresadoliana Extracta” dalla sua Rovereto nel 1881 e segg..

Ancora i territori montani alpini di Piemonte, Lombardia, Veneto e dell’Appennino del centro e sud, hanno originato buona informazione delle tradizioni secolari della caseificazione di formaggi scientificamente supportata dalle università per tipi locali, tradizionalmente stagionali per il ciclo della pastorizia montana. I territori monani italiani costituiscono il 45 % del territorio, come per la Svizzera con le sue tradizioni, dell’Austria, della sezione alpina e del massiccio centrale francese e dei Pirenei. Sicilia e Sardegna hanno storia analoga con alcune riserve di nicchia e condizioni di vita pastorale che non sono tanto dissimili da quelle del medio evo. L’indagine riguardante il periodo romano e pro-romano continua ad interessare alcuni centri accademici della penisola e transalpini.

Paolo Marchi, giornalista gastronomo genuinamente legato alla natura oltre che all’innovazione, ha tracciato una rappresentazione della gastronomia di ristorazione (che ritroviamo in un articolo di rara sintesi scritto per Il Giornale di domenica 26 Aprile che intendo conservare per basket ASA-EXPO) e del interesse che la ristorazione d’élite ha per i prodotti di nicchia: essi necessitano di trasparenza e fedeltà di denominazione e distribuzione. Per un “formaggio eccellente” come il “Bitto storico” attuale è da considerare che la nicchia è limitata a 4000 forme, ciascuna certificata e garantita nel suo invecchiamento che oggi ha spazio nella “casera d’affinazione” costruita due anni fa a Gerola Alta, con un patrimonio di forme che vanno dal 1996 ad oggi! La qualità di conservazione è garantita da certificato firmato direttamente dell’eroe della leggenda, il mitico Paolo Ciapparelli, imprenditore del settore edile imprestato a cacio, che con i partner sia della Valle che di Milano e del resto d’Italia ha messo alla ventura i mezzi finanziari e di competenza per la costituzione della società di sostegno che garantisce l’acquisto dell’intera campagna e paga il “giusto prezzo” ai pastori – casari delle valli del Bitto.
Di fatto dopo il primo anno d’affinazione la produzione è classificata e marchiata, patrocinata dai Presidi Slow Food, viene vendutae distribuita dalla “Valli del Bitto Trading SpA”. L’intera campagna di produzione è conforme al disciplinare di Presidio S F, severamente rispettato. I produttori stanno dibattendo sulla continuità storica di denominazione “Bitto” sia a livello ministeriale, che regionale con le autorità pubbliche e in provincia nei confronti del Consorzio DOP da cui è sorta una grave vertenza sfociata in esposto alla Comunità Europea. Purtroppo altre complicazioni hanno determinato che alcuni casari tradizionali, dei pascoli da Albaredo al passo di San Marco, siano ancora parte del Consorzio DOP che attualmente distribuisce un prodotto “Bitto” che non nulla a che vedere con il “Bitto Storico”, per caratteristiche organolettiche che corrispondono ad un “nuovo disciplinare” per un prodotto siglato con il marchio DOP e con l’identificazione del pascolo. Un pasticcio italiano irrisolto da 5 anni, che si basa su un equivoco che fa… al minimo “confusione”!!!

La Regione Lombardia per iniziativa dell’assessore all’agricoltura Luca Daniele Ferrazzi ha ritenuto di discutere e proporre una soluzione che si fonderebbe “sull’inserimento nel Disciplinare della possibilità di apporre sulla forma la marchiatura indicante per esteso il nome dell´alpeggio in cui il formaggio è stato prodotto per quei produttori che non utilizzeranno i fermenti autoctoni e gli integratori alimentari”. Il sig Paolo Ciapparelli ha descritto al pubblico, in ogni occasione, le condizioni di lavoro dei pastori oggi, ieri e forse con ansia minore quelle di domani, che vedono riconosciuto il valore del prodotto al prezzo di mercato dei formaggi di pregio gastronomico, ricavandone direttamente una giusta remunerazione: al momento del conferimento siamo sull’ordine dei 18 Euro al kg, e per le forme all’invecchiamento parte dell’incremento del prezzo di vendita di ca 10 Euro al kg per ogni anno d’affinamento prolungato oltre al secondo. Al di là dei mesi estivi, il tipo “Latteria storico”, da cagliatura giornaliera di latte scremato, segue un schema di denominazione e di retribuzione simile per forme di pascolo alpino (malga) garantite.

La tecnologia rigidamente applicata, i tempi, le temperature, le procedure di salagione e di lavorazione della crosta (essa è regolarmente seguita e mantenuta edibile e pulita, adattata al riposo su tavole in abete poroso (in funzione della consistenza raggiunta in superficie), la cura dello stato di assenza da attacco da “acaro” (classica taratura) e l’esposizione all’ambiente delle forme è ampiamente descritta dalle locandine di prodotto che ha fatto ampia parte della presentazione dei relatori. Altrettanto l’eccellente conservazione dei sapori originali solo intensificati dall’invecchiamento senza tendenze di formazione secondaria di degenerazioni piccanti o amare (Corti, Ciapparelli, Guffanti, Lo Scalzo, Marchi).

Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow food per le biodiversità ha sviluppato i concetti chiave per la conservazione, a livello mondiale, di riferimenti e lavorazioni che vengano garantite di restare immutate nel tempo a venire, impegno di fondo per la concessione della denominazione di Presidio Slow Food. Il caso specifico del Bitto è il primo caso in cui personalmente Sardo e Ciapparelli si siano congiuntamente impegnati nella petizione-esposto presentata alla corte di Giustizia della Comunità per rivendicare il diritto all’uso del nome “Bitto”, oggi negato dal Consorzio DOP all’associazione, e alla denominazione di “Bitto Presidio Slow Food”.

Considerazioni di carattere etico e di notevole valore culturale e antropologico sono state presentate dalla Dr.ssa Cristina Grasseni, della Fondazione Giannino Bassetti, che ha aumentato il valore aggiunto della tradizione con l’apporto culturale del premio alla qualità gastronomica. Oltre a al valore della documentazione storica di provenienza e di conformità si aggiunge il valore della partecipazione alla comprensione dei comportamenti e dei valori della vita sociale nela loro evoluzione storico ambientale. Si tratta d’approfondimenti che meritano riflessioni per il dibattito dei temi a larghissimo spettro previsti nel piano globale d’alimentazione del pianeta che sono da affrontare e approfondire anche per l’occasione di Milano EXPO 2015.

In questo senso, oltre che su riflessioni di qualità e di prezzi per un prodotto in confusione di denominazione, la validità di buona comunicazione rientra negli interventi-domanda di Paolo Marchi e di Giovanni Guffanti Fiori, importante affinatore storico di tipi di formaggi stagionati, tra cui il Bitto, e distributore, leader apprezzato e noto in Europa anche come protagonista di colta comunicazione promozionale che le autorità Francesi affiancano con diretta presenza. L’autorità si unisce all’affidabilità per avvalorare storia e leadership dei formaggi vantata dai cugini transalpini a differenza di tanta indifferenza di autorità ed operatori pubblici in Italia – ammessa da parte di tutti - al di fuori di quattro gatti… golosi, che si parlano tra loro, come in occasione della tavola rotonda del momento! I quattro gatti si allineano alla tesi dell’associazione dei produttori, che si trasformano in leoni, e auspicano che si possa portarne eco alla voce della ristorazione - di qualità - che sta ricercando altrettanto identità di squadra per consentire una comunicazione affidabile, richiamando attorno a sè con più attenzione anche guru della politica a sostegno dei piani di sostegno della gastronomia italiana nella competizione globale e a difesa da decreti offensivi di contrapposizione.

La voce dell’unica associazione aperta alla partecipazione pubblica e individuale libera rimasta attiva sul campo, Slow Food, vanta di essere unico sostenitore italiano delle iniziative di conservazione di tesori di qualità gastronomica e di prodotto di riferimento e ha mezzi per farsi sentire in Italia e all’estero con energia convincente. Non tutti i pareri di merito combaciano tra i presenti, espressamente tarati da un vizio di passato legato politicamente. Alcune linee di attività hanno costituito argomento di perplessità per una specie di linea di tendenza accusata di fare affidamento su complicità di idee che confluiscono su posizioni ripartite anche politicamente.

Altre componenti di sostegno a questo specifico segmento, della pastorizia montana e della lavorazione del latte, si trovano con seria difficoltà di comunicazione al pubblico di una realtà che spesso cozza contro interessi solidamente attenti ad ogni minaccia al mercato. Altre associazioni tradizionalmente presenti con la funzione di osservatori liberi hanno perso vivacità, ma soprattutto l’Italia non ha tendenze di associazionismo libero, eticamente sostenibile, e socialmente partecipato.

Per il settore specifico a partire dagli anni ‘90 fino al 2001, Lo Scalzo ha documentato lo stimolo che AIC aveva risvegliato proponendo un’attenzione speciale al comparto caseario, di necessità di denominazione appropriata, di stimolo per la divulgazione del patrimonio nazionale per la caseificazione non solo di montagna e d’alpeggio. Si trattò di un progetto di presentazione sempre meglio messa a fuoco e ripresa da terzi con successo. A partire dal ‘92 l’iniziativa si rafforza attraverso l’autorizzazione del Ministero Agricoltura e Foreste dei disciplinari d’istituzione delle “denominazioni d’origine” del 1954 che danno luogo nel 1992 a venti denominazioni di origine (DO) di formaggi e a sei riconoscimenti di tipicità (DPR).

Analogo riconoscimento è segnalato su vignoble e su olio d’oliva che oggi è arrivato a raggiungere il più alto numero relativo di DOP e denominazioni accreditate dalla Comunità Europea.
Gli apporti sono noti agli addetti ai lavori, tra gli accademici ed i lettori: nelle edizioni della Guida ai Ristoranti d’Italia i formaggi italiani hanno trovato ragione di essere presentati in pietanze tradizionali e di nuova cucina, aggiungendo valore al prodotto a cominciare dagli chef, in competizione di qualità e di gustosità, ma anche da tutti i cuochi e cuoche interessati alla somministrazione di piatti e prodotti locali, tipici, o di mercato, anche per l’alimentazione di massa.

La comunicazione gastronomica a partire alla metà degli anni 80’ era diventata uno degli strumenti più efficaci per incrementare il successo d’ascolto: ASA ne fu un felice esempio, richiamando l’adesione di giornalisti e comunicatori, ma largo successo arrivò soprattutto alle iniziative di Slow Food. Altrettanto l’Accademia, dedicata ad un proselitismo prevalentemente di élite raddoppiò le delegazioni in Italia (o più!) ma si estese anche all’estero. Oggi prosperano le reti di Papillon, le sagre e fiere come Artigianato in Fiera che richiama oltre 3 milioni di visitatori nelle 9 giornate dagli anni 90 ad oggi, o come Slow Food a Torino, Cibus a Parma, eccetera, eccetera… Solo la ristorazione non riesce ancora trovare un “minimo comune comunicatore” trasparente, fuori dalla mischia della marca e delle individualità tranne, estesa al panorama europeo, Identità Golose, ma a briglie sciolte.

Pubblico popolare, largo consumo che fa schizzare la competitività commerciale, strategie di marketing, consorzi e le associazioni d’acquisto. Ognuno canta la sua canzone sulla scia di un’influenza senza strategie messa in campo dai mass media. Siamo arrivati al punto che tipi di formaggi a corto mercato non sono a volte reperibili, che il Gorgonzola classico, non quello cremoso, debba essere stimato da esperto a esperto, da forma a forma, nelle celle d’invecchiamento… e Stilton e Rocquefort, inveterati concorrenti di qualità, si facciano largo… Ciascuno è un problema, ciascuno un caso a sè… Restiamo al Bitto!

Bitto è denominazione oggi temporaneamente proibita ai suoi padri: questo è il nocciolo dell’assurdo italico! Il Consorzio si è appropriato della denominazione legalmente, d’origine ma allargandone il territorio storico per far fronte al potenziale mercato della leggenda, con buona fede dei produttori storici che avevano avuto la garanzia del disciplinare, dell’allevamento al pascolo, dell’esclusione dei mangimi anche in quanto le “razze da pascolo”, resistenti all’alimentazione naturale di montagna non sono portate a nutrirsene ed i mangimi a valle sono utili per aumentare la produzione di latte, mentre la tradizionale mungitura di capre e mucche per fare quel formaggio è ineguagliabile, tra tutti i nostri, capaci di resistere all’invecchiamento prolungato senza virare al piccante.

Bitto è formaggio che rinforza ed esalta le proprie componenti più armoniche e gustose dei sapori, ciascuno tipico per ogni forma, provenienti dai fiori e dalle erbe naturali del giorno, capaci di esaltarsi in unico tempo con tutto: oggi, data la sua preziosità, con l’abbraccio di ardenti passioni da vini maschi autoctoni di grande forza ma gentilezza di tatto, come gli Sfurzat, anche della nostra età… cioè stravecchi, per dare spazio a meditazione, pipa, fuoco al camino e una carezza ogni tanto, in bocca, al palato, nei sensi.

Tutto vero: i ricordi del ‘55 da giovane cavaliere del Gorizia, quelli maturi degli anni ’60 quando ancora lungo la via sterrata per Pescegallo si sorrideva alla scritta in calce “Aria sana, Mens sana… Socrate” sottoscritta con… “cerco la mente”… ed i profumi di taragna al “Bitto e fraina” lubrificata con pezzi consistenti di burro ramenati nel denso pastone, lungo gli alpeggi, provenienti dalla caldera fumante a pochi metri! Era lo scenario alla Sagra del Bitto e della Mascherpa, che si continua a ripetere oggi ancora, ma in tendoni da 1000 e più bocche e non al prato o al plaid con il condotto, il sindaco, il prete…

Il “Treno del Bitto” del 26 aprile 2009, promosso sulla stampa e dai chiostri dell’Umanitartia con l’assaggio di forme da uno ai 5 anni, è stato scelto da una cinquantina di milanesi in una giornata piovosa d’aprile e accolto con festosa disponibilità a Gerla Alta dai “Giaroi” (gruppo folcloristico che mi richiama, su scala americana, le rappresentazioni storiche dell’antica capitale degli Stati Uniti, Williamsburg, ricostruita due secoli dopo con ogni negozio, bottega vissuta e con personaggi in costume dell’epoca, forca compresa!).

Peccato che gli americani abbiano imparato solo secoli dopo a cagliare latte e fare formaggi! A Gerola delegato del distretto Lombardia di S F era anche il responsabile degli incassi per la degustazione guidata e le visite… L’interesse agli aspetti etici e sociali non appariva aperto quanto il mazzetto di scontrini da cedere ai visitatori… Mi ha chiesto 45 o 35 Euro… visto che ero arrivato con i miei mezzi… Avrei voluto passare un altro momento con gli amici d’alpe d’antan e ricordare i giorni di libertà di bere e gustare sapori che mi sono familiari da lungo… Invece sono scappato: business is business, per S L, l’ospitalità evidentemente non era concepita, riservata solo al politico di parte, come si diceva il giorno prima. Tutti sono nell’età moderna abbastanza ospitali, ma con i soldi degli altri, non certo da per salutare indipendentemente un apporto di volontariato. Ho ringraziato, e sono scappato a fondo valle, per un Capretto di nicchia…, appena al di là della ferrovia, all’uscita di Morbegno, pagato e piaciuto! Era giornata di cresime, ogni buon ristorante o altri popolari erano pieni di famiglie con ogni età di casa, in allegra compagnia. Dopo un’altra oretta di macchina, ligio ai frequenti limiti di velocità, ero in un’altra valle storica, la Camonica.
Sì, quella dei graffiti camuni, patrimonio dell’ Unesco. Ancora più antica stanza di bocche affamate, anche loro di tradizioni pastorali da migliaia d’anni, ma anche ricche di quel ferro che avevano imparato a forgiare per difesa e barattavano, soggiogati, con le autorità della Serenissima in cambio di cibo e altre risorse.

Pronto per una meditazione solitaria, a casa mia.

Enzo Lo Scalzo, AA
27 Aprile 2009