PERCORRENDO LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com ]


Sommario

VINO
NOI LO BUTTIAMO GLI ALTRI LO VENDONO

CONSUMI VERDI
ECCO CHI MANGIA BIOLOGICO


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VINO
NOI LO BUTTIAMO GLI ALTRI LO VENDONO
Il comitato di gestione della Commissione Europea ha autorizzato il 6 settembre scorso la distillazione di crisi per 2 milioni di ettolitri di vini italiani a 1,91 € per grado ettolitro. «Consideriamo questa decisione che comporta una spesa da parte del bilancio UE di 45 milioni di euro - ha dichiarato il Ministro del Mifap Gianni Alemanno - una prima risposta per l’Italia che aveva chiesto la distillazione di crisi per 6 milioni di ettolitri». Superfluo sottolineare che le associazioni vicine al mondo del vino hanno, nell’ordine, prima strillato contro il trattamento restrittivo di Bruxelles nei nostri confronti, poi pressato con forza gli uffici del Ministro affinché si adoperino perché venga concessa sollecitamente la richiesta dei mancanti 4 milioni da distillare. Ciò malgrado le previsioni congiunte di Ismea e Unione Italiana Vini che ai primi di agosto indicavano che la vendemmia 2005 avrebbe subito un calo medio generale del 3% con punte del 6-10% in Piemonte e in Emilia-Romagna. Come dire che dovrebbero essere disponibili 51,8 milioni di ettolitri rispetto ai 53,3 del 2004. Ma mentre scrivo questa nota ulteriori stime previsionali lasciano immaginare che la flessione potrebbero essere più elevate. Nonostante ciò, a causa soprattutto delle enormi giacenze delle cantine del Sud, la parola d’ordine del momento è: “distillar bisogna”,.
Ci risiamo, nel settore vino di casa nostra c’è aria di crisi. Non esattamente con questo termine ma un concetto molto simile è emerso nella relazione di Mario Consorte, presidente di Assoenologi, in occasione del loro recente 60º congresso. Colpa della crisi economica in atto trasversalmente in parecchi Paesi europei? Colpa della globalizzazione che per i più sembrava una teoria economica ed ora, il mondo enoico nazionale in particolare, non è in grado di gestire? Colpa di una burocrazia che esaspera e ingessa ogni azione? Colpa delle ingovernabili varianti climatiche? Colpa del fato? Insomma, colpa di molti e di nessuno. Un paio di fatti però sono certi: esiste in Italia una parcellizzazione enorme dei vigneti; si pensi che sui 3.500.000 ettari vitati la superficie media per azienda è di 1,3 ettari contro, ad esempio, dei 300 di Cile e Australia, per tacere poi dell’endemica mancanza di qualsivoglia parvenza di marketing settoriale. Da anni e anni da noi funziona così: bastano appunto un paio di ettari di vigneto, meglio se è in area Doc, si vinifica magari con la consulenza strapagata di qualche “santone” dell’enologia, si disegna una bella etichetta e ci si precipita da soli sui mercati sicuri di vendere, però evitando come la peste la grande distribuzione perché il prodotto messo sugli scaffali si svilirebbe. Questo semplificando, ma non troppo, e fatte salve le debite eccezioni, è il quadro generale della nostra vitivinicoltura. Tanto alla fine qualche provvidenza, europea, statale, regionale o consortile, ecc arriva sempre. Alla luce di ciò fa rabbia leggere sui quotidiani inglesi (segnatamente il “Daily Telegraph”) che scrive, anch’esso leggermente meravigliato, che i sudditi di Sua Maestà attualmente preferiscono il vino a lager, ale e stout. Birre che sino all’altrieri costituivano il loro drink per eccellenza. Risulta, infatti, che le vendite di vino al dettaglio siano aumentate nell'ultimo anno di oltre 350 milioni di euro per un giro d’affari che sfiora i 3 miliardi mentre la spesa per consumi birrari è invece scesa a 2,6 miliardi di euro. Tendenza interessante, quindi in un mercato semi-vergine con concrete possibilità di sviluppo. Ma ad approfittarne non sono i nostri operatori che come detto si muovono sciolti e bradi, sono imprese che hanno messo in campo strategie di promozione e di marketing. A prima vista semplici e forse un po’ banalotte, ma evidentemente efficaci. Prendiamo ad esempio Mr. e Mrs. Johnson, omologhi dei nostri signori Rossi, affascinati dalle seguitissime sit com televisive “Friends” piuttosto che “Will & Grace” e al cinema da film come “Sideways”, prodotti di entertainement sponsorizzati più o meno palesemente da grosse imprese vinicole australiane e californiane che hanno utilizzato questi media come efficaci grimaldelli subliminali per far discettare di vitigni, aree vocate, profumi, colori e retrogusti, azzardando in pari tempo abbinamenti gastronomici, ma soprattutto facendo capire che esistono vini per tutte le tasche. Scardinando insomma il vecchio preconcetto dei britannici che bere vino a tavola o al pub è roba da ricchi o da snob. Vero è che non si può certo affermare che attualmente i consumi siano di massa; il quotidiano inglese ipotizza persino si possa trattare di una moda. Ma sbaglia, perché alcuni sondaggi commissionati da catene del modern trade assicurano che la tendenza è una realtà ormai conclamata e segnalano che anche alcune aziende vinicole cilene e sudafricane, direttamente o supportate da agenzie governative o para governative stanno mettendo appunto strategie di marketing e di comunicazione per penetrare più efficacemente l’interessante mercato british. Occhio poi anche ai cinesi, da soli o in partnership, che zitti zitti, oggi con gli innovativi ice wine, tra non molto con shiraz, pinot noir, chardonnay, ecc. diranno la loro. E gli italiani? Distillano.


CONSUMI VERDI
ECCO CHI MANGIA BIOLOGICO
Hanno un’ età compresa tra i 30 e i 40 anni, laureati/e, lavoro dipendente, residenza nei grandi centri del Nord est, equamente divisi tra donne e uomini. Questa l’istantanea del consumatore tipo di alimenti biologici scattata dall’indagine promossa da Coldiretti e realizzata dall’Ispo riguardo le opinioni degli italiani sull'alimentazione presentata recentemente al Sana di Bologna. Sei italiani su dieci (64%) lo scorso anno hanno acquistato cibi biologici per una spesa totale stimata in 1,6 miliardi di euro pari al 1,4% del totale dei consumi alimentari. Cifra di spesa sostanzialmente stabile in Italia mentre sul mercato mondiale è cresciuta del 7-9% raggiungendo i 25 miliardi di dollari. La domanda italiana di prodotti bio è indirizzata per il 22% verso prodotti confezionati, per il 21% a latte e derivati, per il 18% a frutta e verdura fresca, per il 13% a pane, pasta e riso, per il 12% a bevande, per il 9% a carne e uova e per il 5% a prodotti dietetici. A fronte di una sostanziale stabilità dei consumi si assiste ad una forte riduzione della produzione nazionale che nel 2004 ha registrato un calo del 17,4% nel numero di imprese che è attualmente di 34.836 unità, ed una riduzione del 9,3% nella superficie coltivata che è scesa a 954.361 ettari. Tuttavia, sostiene la Confederazione dei coltivatori, per mantenere il primato nazionale nell'Europa dei 25, dove l'Italia è leader assoluta con oltre un terzo delle imprese e oltre un quinto della superficie, è necessario un intervento normativo che renda riconoscibile il biologico di casa nostra da quello speditoci dall'estero tenuto conto che nel 2004 c’è stato un aumento del 13% del numero di importatori. Per consentire scelte consapevoli ai consumatori - scandiscono alla Coldiretti - occorre evitare che vengano contrabbandati come nazionali prodotti esteri, ed è quindi necessario rendere operativo il marchio del biologico italiano per colmare il ritardo del nostro Paese nei confronti di Francia, Germania, Austria, Belgio, Svizzera, Olanda, Svezia e Danimarca che da tempo hanno fatto questa scelta.