PERCORRENDO LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com ]


Sommario

AGRITURISMI
POCA AGRICOLTURA TANTO SHOW

PRODOTTI TIPICI
LUCI E OMBRE SU DOP E IGP CHE SONO 150

MIGLIORAMENTI STRUTTURALI
IL MONDO AGRICOLO STA CAMBIANDO (LENTAMENTE) PELLE


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AGRITURISMI
POCA AGRICOLTURA TANTO SHOW

Non lo nascondo, mi piacerebbe, magari copiando il candore e la prosa di molti colleghi che si occupano di agroalimentare, usare incipit aulici del tipo “nella splendida cornice di…”per raccontare di un settore di questo nostro universo: l’agriturismo. Che dovrebbe essere la vetrina animata dell’intera filiera, ossia la vivida dimostrazione di cosa si fa in campagna, cosa e come si produce e si alleva, come si vive e cosa si mangia. Insomma, l’attestazione che esiste un mondo diverso da quello delle aree urbane, più sano, più genuino che ci riporta - pur con gli adeguamenti del progresso - un po’alle radici di noi tutti. Vivere magari solo per un giorno o due in realtà e spazi che rendono possibile mordere un piccolo sogno di evasione dal routinario mostrandoci altri stili di vita che oggi chiameremmo “a dimensione d’uomo”. Il concetto, magari un po’ troppo enfatico-pubblicitario che appare sul sito dell’Agriturist spiega che “Agriturismo significa ospitalità, cordialità, genuinità, voglia di stare in libertà e amicizia. E’ un fenomeno in continua crescita ed espansione: meta di vacanze per giovani e anziani, famiglie e sportivi o semplicemente meta per i buongustai alla ricerca di sapori antichi e prodotti tipici”.
Che gli italiani di tutto ciò ne avessero una gran voglia si constata dal fatto che lo scorso anno le 13.500 aziende agrituristiche censite hanno ospitato 10 milioni di persone incassando 900 milioni di euro, o più verosimilmente, oltre 2 miliardi come risulta da stime semi-ufficiali. Un business enorme che le grandi catene dell’ospitalità se lo sognano. Una marea di soldi che aiuterebbero ad ammortizzare i deficit dell’economia agricola in perenne mano tesa verso enti e istituzioni per accaparrarsi contributi, “aiutini” e “aiutoni” a spese nostre, ovvero dell’intera comunità. Peraltro, anche il sistema agrituristico è nato proprio per questo: aiutare e tutelare la nostra agricoltura. Così, infatti, recita la prima legge nazionale pubblicata sulla “Gazzetta Ufficiale” nel dicembre 1985. In pari tempo però il legislatore fissava norme chiare e precise: «L’attività deve essere svolta soltanto connessa e complementare alla coltivazione dei campi e deve utilizzare strutture, prodotti e manodopera dell’impresa agricola». Con questi indirizzi, o meglio, con questi dettami, chi oserebbe criticarne la bontà ? Nessuno credo. Ma le cose non stanno esattamente così, ad allargare le maglie ci hanno pensato le Regioni che in nome della valorizzazione dei propri territori decidono in legittima autonomia concessioni edilizie, deroghe fantasiose, erogazioni di contributi a fondo perduto per operazioni stravaganti (sono stati elargiti, per esempio, parecchi euro per la cura delle siepi di aziende agrituristiche e per collocare le loro insegne contrariamente ad altre attività per le quali, invece, oltre che a sistemarle in proprio si pagano fior di tasse) e via enumerando. Basta dare un’occhiata alle offerte e frequentare con occhi disincantati alcuni di questi posti per rendersi conto che premesse e dettami sono drammaticamente disattesi. Non da tutti, fortunatamente, ma da parecchi proprio sì.
Se è relativamente compatibile che in un agriturismo, poniamo della Toscana o dell’Umbria si tengano corsi di ceramica, ovviamente a pagamento, al massimo maliziosamente ci si può domandare se l’insegnante è la moglie, la figlia o la cognata del contadino (manodopera dell’azienda agricola) o l’insegnante di belle arti del vicino liceo che arrotonda lo stipendio. Ma ciò non è così anacronistico come alcune feste campestri organizzate per allietare gli ospiti animate anziché da vivaci fisarmonicisti, chitarre, ocarine e pifferi, da gruppi di suonatori di taiko ki, tamburi giapponesi, o da danzatrici del ventre (succede!), personaggi che non fanno certo parte di una classica azienda agricola di casa nostra. Così come ci si può stupire trovare in cascina ieratici maestri di yoga o esperte massaggiatrici tailandesi e nei bazar assieme all’olio extravergine, la farina macinata a pietra e il pollo ruspante, una selezione di vezzose pashmine multicolori made in China, bottiglie di whisky irlandese assieme a bottiglie di Chianti o di Nero d’Avola. L’ospite è sacro e va coccolato, perciò non è il caso che si lavi in una tinozza con acqua gelida (come magari vorrebbe), tuttavia piazzare una Jacuzzi nell’ex fienile tramutato in sala da bagno mi pare fuori luogo, così com’è sopra le righe far trovare i più tecnologici attrezzi da palestra sotto il portico. Tuttavia le note più grottesche, per usare un eufemismo, riguardano il cibo. Mi sposto da Milano o da Genova, da Bologna, da Roma o da Taranto per mangiare contadino perbacco! Perché organizzarmi cene etniche con kebab, sushi, feijoada e burritos? Perché invece di sapide fette di lardo o di sanguinaccio mi offrono degli involtini di salmone all’aneto? Perché invece di un bel coniglio in porchetta o di canederli allo speck mi propinano, in Val Senales, un sauté di vongole veraci? E nel Casentino invece della ribollita o la pappa col pomodoro mi servono una vellutata di miso profumata di zenzero? Poi, anzi, prima, per colazione, assieme ad una bella ciotola di caffèlatte e marmellate di frutta e magari anche del miele (finalmente!) ecco arrivare un bicchierone di succo d’arancia made in Germany (lo si evince dal brick lasciato sul tavolo) e invece di un paio di fette di pane casereccio o di biscotti fragranti di forno mi propinano una confezione di Buondì Motta o di Girella.
Il collega gastronomo Francesco Arrigoni del “Corriere della Sera” senza perifrasi l’ha scritto: «Agriturismo, e sai come mangi (male)». Ancora un paio di constatazioni. La prima è della Federazione italiana pubblici esercizi (Fipe) che si interroga sul fatto di come sia possibile fornire cibi e bevande con materie prima dell’azienda agricola ad un numero considerevole di ospiti poiché la maggior parte degli agriturismi ospitano nei loro “ristoranti” matrimoni, battesimi, cresime e festeggiamenti vari per cento e passa persone due o tre volte la settimana. Da dove arriva il cibo? Quanti cuochi e camerieri e lavapiatti occorrono? Tutti famigli? La seconda considerazione è ancor più delicata: eccola papale papale dai verbali dei Nas. Nel 2003 in 48 aziende agrituristiche visitate a campione ne hanno trovato una su tre non in regola. Nel Lazio hanno sequestrato 900 chili di carni ovine a rischio Bse, in Sardegna le carni erano di maialini macellati clandestinamente senza bolli sanitari. A Reggio Emilia hanno bloccato per sei mesi un’azienda - sempre agrituristica - perché il “creativo” proprietario coltivava marijuana ma non da fumare che diamine!. Fornendo precise informazioni tramite adeguate pubblicazioni tecniche, suggeriva l’utilizzo dei suoi semi per la preparazione di pietanze. Vedi che si può ancora sognare spazi liberi e visioni agresti? Un succoso polpettone alla marijuana aiuta: fa addirittura volare.


PRODOTTI TIPICI
LUCI E OMBRE SU DOP E IGP CHE SONO 150

Dirò subito che i dati che qui menziono relativi alla spesa per acquisti di prodotti tipici si riferiscono al 2004; cifre più recenti saranno probabilmente presentate l'11 novembre prossimo nel corso della seconda Giornata Nazionale delle DOP e IGP promossa da Agriturist . Circa questi prodotti sembrerebbe ci siano più luci che ombre. Sembrerebbe. Vediamo comunque il quadro economico che li riguarda partendo dalla spesa globale: le famiglie italiane per acquistarli hanno speso 2,5 miliardi di euro con una crescita in volume dello 0,7%. Crescita invero modesta se si considera che nel bienno precedente si era registrata una flessione generale dei consumi domestici rispettivamente del 3% nel 2002 e del 4,4% nel 2003. Tornando al 2004, nella graduatoria in valore spiccano i formaggi: Grana Padano (+4,4%), Parmigiano Reggiano (+2,2%), Mozzarella di Bufala Campana (+2,1%). In calo invece Gorgonzola (-6,2%), Montasio (-3,7%) e Taleggio (-9,3%). Annata non certo rosea per i prodotti tipici a base di carne: Prosciutto di Parma (-5,8%), San Daniele (-3,2%), leggermente positiva invece la Mortadella di Bologna (+0,7%) mentre ottima la performance dello Speck dell’Alto Adige che ha segnato un superlativo + 17,6%. Volendo essere più analitici si può prendere spunto dall’Osservatorio dell’Ismea che ha una sezione dedicata al business delle specialità Dop e Igp. Ebbene, il bilancio del sistema tipico è positivo quantomeno per i risultati economici «Tuttavia - spiegano - allo stato attuale non è però neppure da sopravalutare; il giro d’affari vale circa il 10% della produzione ai prezzi base dell’agricoltura nazionale. Se però lo si rapporta correttamente al fatturato globale dell’industria alimentare italiana, la sua incidenza è soltanto del 4,3%, export compreso ».
Queste alcune cifre tra le più significative, tuttavia non mi sento di cavalcare gli enfatici entusiasmi né del Mipaf né della Confederazione italiana agricoltori (Cia), insomma di nessun organismo pubblico che plaude per il raggiungimento del primato europeo delle 149 denominazioni europee acquisite dall’Italia (150 se si considera la Stg, specialità tradizionale garantita, alla Mozzarella) sulle 692 in totale sin ora conferite da Bruxelles alle specialità dei Paesi membri. Le ragione del mio disaccordo ad unirmi al coro degli entusiasmi non sono né il cinismo né la mancanza di “amor di Patria” ma frutto di qualche considerazione. Dunque: come è noto, questi sigilli riconosciuti dalla Ue - sovente oggetto di estenuanti compromessi con merci di altri partner europei - hanno lo scopo precipuo di proteggere il tal prodotto sui mercati da imitazioni e contraffazioni più o meno becere onde non svilire le tradizioni alimentari e culturali ma, soprattutto, non incoraggiare e sorreggere l’economia di allevatori, produttori e trasformatori. Per contro, questi ultimi si impegnano a seguire rigorosamente i dettami di capitolati che prevedono buone pratiche, eccellenza di materie prime sottoponendosi a controlli di istituti e agenzie super partes che ne garantiscono provenienza, autenticità e qualità. Prima domanda? Tutto ciò che non ha ottenuto il contrassegno europeo significa che non ha radici tradizionali ed è fatto alla meno peggio con requisiti minimi di qualità? Andiamo avanti: va da sé che esistono costi per l’ottenimento del sigillo nonché per la supromozione, costi che qualcuno lungo la filiera deve assorbire. E’ azzardato ipotizzare che ricadano sul consumatore malgrado, una volta ottenuto si fruisce di contributi comunitari? Ancora: si è detto che Dop, Igp e Stg sono stati studiati e posti in essere per contrastare le contraffazioni sui mercati soprattutto internazionali e oggettivamente per alcune nostre specialità queste “barriere” sono state, e sono, ottime e funzionali malgrado malfattori e truffaldini continuano a provarci. Tuttavia mi chiedo chi mai in Europa e nel mondo potrà mai contraffare il “fico bianco del Cilento” o il “pane casereccio di Genzano” piuttosto che il “peperone di Senise” o il “capocollo di Calabria” oppure il “fagiolo di Sarconi”? Prodotti Dop e Igp che a causa di produzioni limitatissime verosimilmente non escono neppure dai confini regionali. Fermo restando che chi scrive non può che ovviamente essere d’accordo sul principio che ha ispirato la Comunità Europea all’instuaurazione di questi riconoscimenti, tuttavia nutre qualche perplessità sull’affannosa rincorsa al loro ottenimento anche per prodotti, che come accennato, all’estero ci vanno al massimo solamente dentro a qualche valigia di turisti o di emigranti, e in Italia sono (ma non ci giurerei) conosciuti soltanto nell’area di produzione. Perplessità che fanno scaturire domande del tipo: servono per acquisire piccoli poteri? Servono prevalentemente per ottenere aiuti, contributi e finanziamenti dalla cosiddetta “mano pubblica”? Servono per far lievitare i prezzi illudendosi che il plus valore ripaghi il tutto? Non c’è forse un non tanto remoto rischio di omologazione un po’ come avviene per i vini ormai “tuttiDoc”? Ultima riflessione: è ormai da parecchio che nessun serio istituto d’indagine interroga un vasto campione di italiani chiedendo loro se conoscono il significato delle sigle Dop, Igp e Stg. Avremmo delle sorprese.

MIGLIORAMENTI STRUTTURALI
IL MONDO AGRICOLO STA CAMBIANDO (LENTAMENTE) PELLE

Il fatto sorprendente è che i primi ad accorgersi che qualcosa di positivo sta cambiando nell’universo agricolo nazionale sono le genti metropolitane e non i residenti delle aree rurali. Persone che amano trascorrere il fine settimana e magari anche le vacanze in campagna, tra gli animali e i frutti della natura, tra persone che allevano e coltivano e che, magari ruspantemente, trasmettono la sapienza di questi valori. Alla base c’è questa “novità”: il mondo agricolo italiano sta, seppur lentamente, cambiando pelle. Alcuni segnali si scorgono, e occorre dire che era ora, che qualcosa si muovesse (altri Paesi d’Europa l’hanno fatto da tempo), che anche questo settore si adeguasse ai tempi modernizzandosi, non tanto per acquistare l’ultimo modello di trattore piuttosto che l’impianto di mungitura computerizzato, ma che cambiasse mentalità e modo di porgersi verso gli “altri” mondi uscendo da quel bozzolo, certo operoso, ma un poco ottuso. Per contestualizzare quanto voglio evidenziare vediamo anzitutto la sua composizione: praticamente la metà del territorio nazionale è destinato a produzioni agricole, circa 15 milioni di ettari di superfici agricola utilizzabili su 30 milioni di ettari complessivi. In termini di valore aggiunto poi, l’agricoltura italiana è (ancora per poco) la prima in assoluto tra i Paesi Ue. Pur se in flessione - compreso il positivo apporto delle nuove generazioni - il numero complessivo di occupati, tra lavoratori dipendenti ed autonomi, sfiora 1,5 milioni di unità; le aziende registrate, secondo le ultime rilevazioni dell’Istat, sfiorano i 2,3 milioni di unità. Va da sé che tra questa smisurata parcellizzazione è difficile notare fattori innovativi che pure esistono. Parte di questi emergono da un’indagine della Coldiretti che evidenzia alcuni buoni esempi di creatività e innovazione da considerarsi trainanti per la crescita qualitativa del settore. Sono citati esemplari di “farm hospital”, spesso convenzionate con centri di recupero, strutture per la terza età che riconoscono gli effetti positivi di un periodo di vacanza e cura in una azienda agricola che con le sue molteplici attività offre, attraverso pratiche quali l'ortoterapia e la cura degli animali, nuovi stimoli per raggiungere il benessere psicofisico. Così come di “agri-asili” che ospitano bambini da 5 mesi a tre anni che crescono a contatto con i cicli della natura osservando le stagioni, aspirandone i profumi e svolgendo piccole attività manuali utilizzando prodotti naturali. Esistono inoltre giovani imprenditori (verosimilmente enoici) tramutati in scapigliati broker che investono sui futures di vini di qualità; altri si sono attrezzati in modo tale da fungere da ranger contro gli incendi dei parchi e delle aree protette; e ancora, aziende trasformate in fattorie didattiche per i bambini così che non affermino, come è accaduto, che plagiati dalla pubblicità mordendo una mela verde esclamino che “sa di dentifricio!”, e altre aziende ancora diventate intelligentemente “farmer market” per la vendita di ortofrutticoli in alcuni casi con possibilità di raccoglierli direttamente dalle piante e dagli orti. (vedi notizia del 27.07 su questa rubrica). Insomma, l’impressione è che il settore stia aprendosi varchi interessanti tesi all'allargamento dei confini dell'attività agricola con regolari patenti normative codificate dalla Legge di Orientamento n.228 del 18.05.2001. Attualmente, su oltre un milione di imprese agricole, circa centomila non si limitano a coltivare e ad allevare animali, ma vendono direttamente in azienda le proprie produzioni mentre sono oltre tredicimila le aziende in grado di fornire alloggio o ristorazione attraverso l'attività di agriturismo. Attività questa che negli ultimi anni ha registrato un autentico boom (ultimamente però in flessione del 5% - fonte Agriturist) che merita tuttavia un maggiore approfondimento. Mancando una legge chiara e univoca uguale per tutte le Regione che la regoli con precisione, non pochi ci hanno marciato e ci marciano, (vedi articolo precedente) sia in termini di prezzi, sia soprattutto riguardo la fornitura di cibi spesso più industriali che “agricoli”. Le brioches cellophanate servite alla prima colazione sono un caso emblematico. Per carità, nulla di male, sono cose che mangiamo tutti i giorni. Ma le mistificazioni irritano.