PERCORRENDO LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com ]


Sommario

IMPRESE AGROALIMENTARI
NANE E FRAMMENTATE

INNOVAZIONI DI PRODOTTO
IN ARRIVO LO YOGURT ALLE VERDURE


BIRRA
L’INDUSTRIA PROVA CON LE ALCOHOL ZERO


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IMPRESE AGROALIMENTARI
NANE E FRAMMENTATE

L’Italia ha un numero elevato di micro-aziende volutamente disaggregate incapaci di fare sistema

Isolando le rare eccezioni, contabilizzabili peraltro sulle dita di una sola mano, il panorama dell’industria nazionale dell’agroalimentare (bevande comprese) è raffigurabile come un brulicante esercito di pigmei che, in ordine rigorosamente sparso, con enorme fatica cerca di penetrare i mercati di riferimento. Quelle italiane sono micro-imprese che malgrado l’evidenza che gli scenari mondiali mostrano con chiarezza non intendono aggregarsi né tantomeno affrontare le Borse. Fatti noti che confermano la nostra cultura individualista applicata sia nel privato e ancor più negli affari messi ora spietatamente in mostra da un’indagine curata da Kpmg Corporate Finance, illustrata recentemente ai giovani di Federalimentare.
Si tratta di ben 36.000 nano-aziende di cui solo 6.550 hanno più di 9 dipendenti; tante, piccole e con poca o nessuna propensione di crescere aggregandosi. Un deficit strutturale questo che rischia di pregiudicarne la competitività sui mercati ogni giorno più globalizzati. Si pensi che in Italia i processi di consolidamento del settore negli ultimi anni sono risibili, mentre in un quinquennio le operazioni di merger & acquisition nel mondo hanno marciato al ritmo di 25-30 l’anno. L’ultima in ordine di tempo che per un certo verso ci riguarda è l’acquisizione francese di Galbani tant’è che (fatta eccezione per alcuni “simboli”: Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Asiago, ecc), lo strategico mass market caseario è ormai praticamente in mano straniera.
Modesta inoltre l’attitudine alla Borsa, solo 9 aziende, infatti, sono quotate con una capitalizzazione complessiva di 7,6 miliardi di euro, pari all’1,1% di tutta Piazza Affari, ben lontani dai 130 miliardi di euro che l’alimentare vanta nel polo Euronext, che comprende alcune delle più importanti borse del Vecchio Continente. Solo due dei primi dieci gruppi italiani del settore sono quotati; Parmalat (riammessa recentemente dopo il crack) e Campari (dal 2001). L'esperienza della Campari dovrebbe incoraggiare altre imprese dalle ottime potenzialità, come ad esempio Barilla e Ferrero. Campari, infatti, è cresciuta attraverso 7 acquisizioni registrando in Borsa un incremento del valore delle proprie azioni pari al 146%.
Per capire le dimensioni di questo universo giusto rammentare che il fatturato del food italiano nel 2005 ha raggiunto 107 miliardi di euro, con una crescita del 1,9% e del 3,4% sull’export, pari a un valore di 15,1 miliardi di euro. Questi i dati ufficiali, rintracciabili e comprovabili. Del sommerso e del “nero” che alzerebbero di parecchio queste cifre ovviamente non c’è traccia. All’apparenza sembra vada bene così. Allora: avanti tutti ma in ordine rigidamente sparso.


INNOVAZIONI DI PRODOTTO
IN ARRIVO LO YOGURT ALLE VERDURE
Ancora una volta è la marca a fare innovazione

Noi della stampa specializzata non perdiamo occasione per sciogliere peane per i piccoli e medi produttori di specialità alimentari di nicchia, saggi conservatori di giacimenti di esclusive leccornie. Facciamo bene, beninteso, imperdonabile sarebbe non ricordarli con tutta l’enfasi di cui siamo capaci. Tuttavia il mercato va da tutt’altra parte. Chi lo fa, o meglio chi lo occupa, è l’industria, quella di marca in particolare, che impiega risorse in studi e ricerche proponendo innovazioni, creando insomma prodotti rintracciabili con facilità che consumiamo ogni giorno. Certo, a volte anche l’industria commette errori e incappa in topiche, ma ci prova. Il vecchio adagio che “solo chi lavora e si cimenta sbaglia” è sempre attuale. Giusto però, ancorché corretto, sottolineare assieme ai tortelli con la coda, all’inarrivabile formaggio di fossa piuttosto che il ficodindia dell’Etna (Dop), anche le innovazioni dell’industria. Tra le ultime, in fase di decollo, vi sono quelle del gruppo Granarolo che dopo l’acquisto del marchio Yomo, rilevato da una situazione di profonda crisi dalla famiglia Vesely, punta a contrastare il formidabile competitor del settore yogurt, Danone. Per questo Yomo sta per lanciare una linea innovativa di yogurt che integrano elementi base della dieta mediterranea e in linea con l’esigenza di wellness come la frutta e la verdura in un mix originale, proponendo una nuova categoria di prodotto. L'arrivo sul mercato è imminente, probabilmente entro il mese di aprile o i primi di maggio supportando il lancio con un investimento di oltre 7 milioni di euro, seguito dalla proposta di altre nuove linee di prodotto entro fine anno. La strategia di rilancio del marchio Yomo ha già dato negli ultimi mesi buoni frutti, comprovati da quote di mercato considerevoli e relativi risultati economici. Tra la fine del 2005 e l'inizio del 2006 gli yogurt Yomo-Granarolo (che comprendono anche i prodotti della Centrale del Latte di Milano) hanno superato nel segmento “intero” la tedesca Müller attestandosi, secondo le rilevazioni di Iri-Infoscan, ad una quota di mercato del 21,9% inseguendo il leader Danone (34,6%).


BIRRA
L’INDUSTRIA PROVA CON LE ALCOHOL ZERO


Non ci sono Santi, i “mitici” 30 litri di consumo pro capite tanto agognati, che poi sono il minimo del minimo, stante che il consumo medio europeo supera i cinquanta, non si riesce a superarli neppure di un boccale. Nonostante l’iconografia della maggior parte degli spot pubblicitari che mostrano tavolate di giovani che brindano a Gambrinus, di birra gli italiani ne bevono pochina. Solo 29,6 litri a testa. Neppure le teste d’uovo del marketing delle blasonate multinazionali sanno spiegare il motivo di tale resistenza al fascino delle “bionde”, ma anche delle “brune” e delle “rosse”. Sono stati scandagliati tutti gli item: concorrenza del vino? Certo che no. Prezzi elevati? Neppure. Scarsità dell’offerta e qualità modesta? Assolutamente no tant’è che dalle nostre parti, unico Paese al mondo, sono presenti birre di tutto il pianeta. Poca comunicazione pubblicitaria? Non proprio, però cadenzata quasi esclusivamente nei mesi estivi quando la birra si vende da sola. Poca conoscenza del prodotto (si badi, non della marca)? Ebbene si, ma “insegnarlo” pare sia difficile. Stagionalizzazione marcata? Certamente, ma nessuno ha ancora trovato le “armi” per sconfiggere questo mostro. Ora si prova facendo leva sugli stili di consumo che contemplano il wellness. E allora ecco che crescono seppure con numeri piccoli le vendite delle birre analcoliche la cui produzione nazionale è di circa 85mila ettolitri pari allo 0,5% del totale birra. Quindi anche il colosso Heineken si cimenta in questo segmento lanciando la “Moretti Zero”, la prima birra nazionale completamente senza alcol frutto di un particolare processo che lo preleva tramite l’evaporazione sottovuoto, operazione che però in pari tempo mantiene gli aromi e i profumi tipici di una birra chiara. Prevista un’adeguata campagna pubblicitaria a supporto. Campagna utilizzata e in corso gia da qualche mese, anche dal birrificio potentino Tarricone s.p.a. che ha lanciato non esattamente una birra a zero alcol ma poco alcolica, solo 2,5° volume. Il successo di questa birra di puro malto battezzata “Drive Beer” sta nell’aver utilizzato una scaltra operazione di marketing indirizzata prioritariamente ai giovani, ossia ad un target di riferimento preciso, suggerendo loro subliminalmente l’uso di questa birra anche guidando. Infatti, assumendone anche due bottigliette da 33 cl si supera tranquillamente il test etilico o “del palloncino” che dir si voglia. Quale ulteriore plus, il coinvolgimento di un testimonial del calibro del pilota di Formula Uno Giancarlo Fisichella, idolo dei giovani, in veste di credibile consumatore.