PERCORRENDO LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com ]


Sommario

VINI
BEAUJOLAIS TIME: QUANDO IL BUSINESS SE NE INFISCHIA DELLE TRADIZIONI


CONSUMI ITTICI
400 TONNELLATE DI PESCE SULLE NOSTRE TAVOLE

STILI ALIMENTARI
CI SONO I MEGA-TREND A SPIEGARE I CAMBIAMENTI


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VINI
BEAUJOLAIS TIME: QUANDO IL BUSINESS SE NE INFISCHIA DELLE TRADIZIONI

Il déblocage del Beaujolais noveau vendemmia 2005 è avvenuto in tutto l’emisfero occidentale allo scoccare della mezzanotte del 17 novembre, ma per una curiosa perversione dell’Unione Interprofessionale dei Vini del Beaujolais che li coordina dal 1960, da quest’anno l’operazione si chiama “Beaujolais nouveau time”. Commistione di vocaboli che, nel nome di una supposta maggior internazionalizzazione, immiserisce una tradizione ultra cinquantenaria. Ma tant’è, la legge del business arriva anche a tali brutalizzazioni linguistiche cancellando dopo anni di “onorato servizio” il claim “le Beaujolais noveau est arrivé” conosciuto ovunque senza bisogno di una semi-traduzione nella lingua di Shakespeare. Per mera curiosità piacerebbe conoscere il parere di un parigino, un lionese un aquitano o bretone ma anche di un tedesco di uno spagnolo o di un greco della pensata delle teste d’uovo che hanno voluto questa nuova dizione. In Italia, dove da anni ci pensa l’agenzia Sopexa a sottolineare il rito del déblocage con una serie di degustazioni per tutta la Penisola, un po’ di sconcerto c’è stato quantomeno prima dei brindisi che apparentemente hanno fatto trascurare questo brusco cambio di rotta lessicale.
Ma veniamo ai numeri e ad alcuni cenni di storia su questa tipologia enoica dei vini (rossi, ça va sans dire) pronti dopo meno di due mesi dalla vendemmia. Il fenomeno del Beaujolais Nouveau non è altro che una felice intuizione - in questo caso davvero geniale - del marketing. Il fenomeno, nato negli anni 50, è costituito in pratica da quattro fattori che hanno contribuito alla sua nascita, alla sua diffusione e al suo innegabile successo. Segnatamente: a) da una normativa emanata nel 1951 dagli uffici delle entrare indirette di Francia; b) dal vitigno gamay noir à jus blanc dal quale si producono vini novelli con la tecnica della macerazione carbonica; c) dalla determinazione di viticoltori e commercianti a sviluppare le aree di questo vitigno; d) infine, dall’immediato gradimento dei consumatori che ne hanno appunto da subito colto
l 'atmosfera conviviale che genera e che è propria di un vino giovane, poco impegnativo seppure accattivante per via dei profumi e dalla freschezza che emana, nonché dell’accessibilità per tutte le tasche. Quindi vino popolare di pronta beva.
La Regione dove sono impiantati questi vitigni raggruppa 3.500 aziende, 18 cantine sociali e 100 négociant. Lo scorso anno - le cifre sono sostanzialmente simili a quelle di questa annata - sono stati posti sul mercato 440.000 ettolitri di Nouveau pari a 59 milioni di bottiglie; praticamente un terzo della produzione complessiva della regione del Beaujolais. I rimanenti 2/3 sono costituiti dai Beaujolais ottenuti con metodo tradizionale, Beaujolais-villages (anch’esso vinificati senza macerazione carbonica) e i 10 cru del Beaujolais (Brouilly, Chiroubles, Chénas, Côte-de-brouilly, Fleurie, Juliénas, Morgon, Moulin-à-vent, Régnié, Saint-amour). Nel 2004 il fatturato dalla commercializzazione all’ingrosso del Nouveau è stato di 80 milioni di euro. Ottimo il trend delle esportazioni: 215.000 gli ettolitri spediti in più di 180 Paesi, pari a circa il 50% dei volumi immessi sul mercato, percentualmente il Beaujolais è leader dell’intero export dei vini francesi. Queste le performance: Giappone: 12.500.000 bottiglie, Germania: 45 milioni, Usa 3.700.000, Paesi Bassi 1.800.000, Belgio: 900.000, Svizzera 800.000, Gran Bretagna 260.000 e, sfidando i nostri Novelli, in Italia: 460.000.


CONSUMI ITTICI
400 TONNELLATE DI PESCE SULLE NOSTRE TAVOLE


Agli italiani il pesce piace. Lo scorso anno le famiglie italiane hanno consumato oltre 400 tonnellate di prodotti ittici tra freschi e surgelati con una spesa di circa 3.7 milioni di euro acquistandoli prevalentemente (65,3%) presso le insegne della Grande distribuzione organizzata (Gdo) che non a caso amplia e organizza sempre più questo comparto che, oltre ad essere fonte di una buona redditività, ha anche un’importante funzione in termini di servizio..
Nei primi otto mesi di quest’anno, secondo le rilevazioni dell’Ismea, le quantità acquistate sono state 255.748 tonnellate per un controvalore di 2.182 milioni di euro. Riguardo i volumi si è avuto un incremento superiore al 2% rispetto al corrispondente periodo del 2004, la spesa invece è rimasta sostanzialmente ai livelli dell’anno precedente. Il consuntivo dei primi otto mesi del 2005 fa emergere, quantitativamente, un’interessante crescita dei consumi delle tipologie che incidono di più sugli acquisti domestici (+2,5% per l’ittico fresco e decongelato, +3,4% per il congelato/surgelato confezionato e +2% per le conserve), mentre dal lato della spesa, si sono avute solo piccole variazioni percentuali.
Tra le principali tipologie, riguardo al fresco e decongelato si rileva la crescita del 2,3% in volume dei consumi di prodotti naturali, in particolare di pesce d’acqua dolce (+9,4%) e di molluschi (+6%). Nel primo gruppo, in aumento gli acquisti di pesce persico (+11%), di trote (+18,4%) e di trote salmonate (+14,4%); fra i molluschi, +11,7% i mitili, +6,4% i polpi e +15,5% le seppie. In diminuzione, invece, i consumi di salmoni (-3%) e vongole (-7,4%). Una leggera flessione ha interessato gli acquisti domestici complessivi di pesce di mare (-0,1% in volume): al calo della domanda di rane pescatrici, altrimenti dette code di rospo (-35,7%), pesce spada (-18%), sogliole (-12,7%), palombi (-11,2%), merluzzi (-5,9%), sarde (-4,5%) e spigole (-2,1%), si è contrapposto l’aumento di richieste di cefali (+23,7%), naselli (+17,4%), triglie (+16,7%), dentici (+16,5%), alici (+7,3%) e orate (+5,8%).
Molto più marcata la diminuzione dei consumi domestici di crostacei (-8,2%), a causa principalmente del negativo andamento fatto registrare dagli scampi (-34%) e dai gamberi e mazzancolle (-10,1%), mentre, viceversa, in crescita del 10,9% gli acquisti di gamberetti.


STILI ALIMENTARI
CI SONO I MEGA-TREND A SPIEGARE I CAMBIAMENTI


E’ tra le più recenti indagini tese a fotografare la percezione dei nostri connazionali nei confronti, di tutto ciò che attiene al cibo, al mangiare, alla tavola. Quindi al suo costo, le marche, i luoghi d’acquisto, l’approccio ai pasti, la “satisfaction”, eccetera. In altri termini una sorta di check-up riguardante vissuto, comportamenti e resistenze.
Lo studio è stato curato da Astra-Demoskopea per la Provincia di Rimini, esplorando tra febbraio-marzo di quest’anno tramite un campione rappresentativo degli italiani (un universo pari a 49.7 milioni di persone) queste problematiche delineando uno scenario dal quale emergono alcune grandi tendenze. Eccole in sintesi.
Le conseguenze della crisi in atto
E’ un momento negativo della vita nazionale come dimostrano tre dati chiave: il 70% del campione afferma: “io e i miei cari stiamo peggio di 2-3 anni fa”; il 51% è pessimista circa il proprio futuro personale e familiare mentre il 30% ha già significativamente ridotto il tenore di vita. Tutto ciò ha avuto pesanti conseguenze anche sul terreno dell’alimentazione: tra coloro che hanno dai 14 anni in su, il 25% dichiara di aver ridotto negli ultimi dodici mesi le spese per mangiare. Di più: 3,3 milioni lamentano di mangiar male dato che mangiar bene costa troppo e 2,7 milioni, appartenenti alla terza età e meno abbienti, non mangiano abbastanza e riconoscono di soffrire regolarmente la fame. Ma anche gli appartenenti al ceto medio e ai ceti privilegiati hanno tagliato le spese alimentari
quantomeno per i pasti fuori casa.
Le marche perdono peso
Sia per le crescenti difficoltà economiche di molte famiglie sia per un più generale indebolimento di molti brand, il 43% afferma di preferire i prodotti alimentari non di marca “quelli che non fanno pubblicità” (18 milioni di italiani: con accentuazioni tra i 25-34enni, ossia i nuovi consumatori e le nuove coppie). Ciò non significa che trionfino gli “unbranded”, i discount (pur in crescita), eccetera ma vuol dire che è diventata più fragile la forza della marca in generale, meno riconosciuta che in passato quale garante di qualità, sicurezza, e giusto rapporto qualità/prezzo. Non a caso è partita con forza la (bella) campagna pubblicitaria di Centromarca tesa a spiegare documentatamente gli sforzi di ricerca, innovazione e produttivi dell’industria di marca.
Il trade vince
Riguardo ai luoghi dove fare la spesa vince la distribuzione organizzata: il 65% dei prodotti alimentari sono scelti a volte presso “quel” commerciante ma ben più spesso presso la “mia” insegna della distribuzione organizzata, mentre la marca industriale, pur con diverse e significative eccezioni, “pesa” 22 punti percentuali in meno, anche se la serietà e l’affidabilità del produttore (non necessariamente di marca) continua ad essere ritenuta essenziale da due adulti su tre. Ancora una volta il pendolo s’è più spostato a favore del modern trade specie tra i 15-24enni.
Stop alla modernizzazione dei pasti
Si vede da cinque fenomeni. Il 22% dei giovani-giovanissimi non mangia niente alla prima
colazione esattamente come all’inizio del decennio. Il pranzo completo a metà giornata torna a superare la metà del campione (52), guadagnando cinque punti rispetto alla cena, che è il pasto principale solo per il 27% degli italiani (era il 32% nel 2000). Si estende la quota di coloro che fanno un pasto solo il giorno (27%) e cresce la percentuale di coloro che mangiano molto solo nel week end, in particolare giovanissimi del sud di classe media che tirano la cinghia durante i giorni feriali per poi scatenarsi il sabato e la domenica). E sono di più coloro che mangiano continuamente senza mai smettere, per evidente ansia compulsava.
Cibo ti amo
E’ un apparente paradosso sociale: da un lato la crisi incide sulle possibilità di spesa per l’alimentazione (in casa e ancor più fuori), dall’altro lato il mangiare e il bere divengono sempre più importanti e gratificanti. Molti riducono il proprio territorio, recuperano ciò che è vicino ed essenziale, privilegiano i piccoli piaceri della vita. Qualche dato: il 75% degli adulti dice di adorare mangiar bene, piace mangiare in compagnia con gli amici e mangiare tanti cibi diversi; al 62% piace far da mangiare per sè, per i propri cari e amici; il 55% sostiene addirittura che il mangiare lo rende felice; per il 10% (che tristezza) “mangiare è l’unico piacere che mi è rimasto”. Tutte queste percentuali sono cresciute del 15% circa in un lustro: d’altra parte 9.2 milioni di adulti affermano di dar più importanza al mangiare di 2-3 anni fa, mentre coloro che dicono l’opposto sono meno (7.6 milioni). Ancora: solo un italiano su sette sostiene di mangiar solo per sopravvivere (in calo), la stessa percentuale vale per coloro che dicono di mangiare pochi o pochissimi cibi (in calo), solo un adulto su dodici (era il doppio all’inizio del decennio) riconosce di provar ansia e senso di colpa quando si alimenta.
L’imprintig della famiglia
Il fatto che tre italiani su quattro adorino mangiar bene ha molte spiegazioni, ma la più significativa è la tradizione familiare. Infatti, il 66% sostiene di venire da una famiglia per cui mangiare è importante e “far da mangiare era amato dalle donne che mi hanno cresciuto”. Ciò motiva la preferenza di massa sia per i cibi tradizionali d’un tempo degli italiani. Insomma, radici familiari, cultura locale, storia personale s’intrecciano sempre più con un incremento medio del 7% rispetto al 2001.
Il multiculturalismo alimentare si allarga
Ciò che la crisi non ferma è la tendenza della netta maggioranza della popolazione a mixare
tradizioni personali, famigliari e locali con cibi e bevande provenienti da altre esperienze. Infatti, se il 68% degli adulti è legato alle tradizioni, è anche vero anche che al 64% piace nutrirsi con alimenti e ricette di altre regioni italiane diversi dal solito, ed al 31% piacciono anche etnici ossia di culture molto diverse dalla propria.
Ritorno alla semplicità
La nuova cultura alimentare di massa privilegia i cibi freschi (83%); sani e sicuri (81%), genuini, cioè fatti con materie prime e ingredienti naturali e di qualità (79%); buoni come sapore, odore e consistenza (76%); nutrienti (75%); semplicissimi (69%); prodotti rispettando l’ambiente (64%); attraenti e appetitosi leggeri e delicati (62%)nonché facili e veloci da preparare. In quest’ambito di preferenze e valori si collocano oggi i gruppi sociali più dinamici.
No alle diete forzate
In questa fase i nostri connazionali per la prima volta in misura netta rifiutano le posizioni estreme. Ed ecco il restringersi dell’area delle diete forti, ritenute ad un tempo faticose, pericolose e inefficaci anche se un quarto del campione è costretto a non mangiare molti cibi amati per motivi di salute. Ecco il tenersi lontano dai cibi dietetici e tristi e da ammalati. In altri termini la maggior parte degli italiani si ricentra, dicendo no all’ossessiva medicalizzazione, alla mania delle diete controproducenti e spesso miracolistiche, ai cibi complessi o iper-gastronomici.
Trionfo dell’edonismo sostenibile
Nel fuoco della crisi economica e psicologica in materia d’alimentazione in Italia, anche se spesso costretta a risparmiare, accresce l’investimento culturale al cibo: si fa rinunciando alle esagerazioni del mangiar fuori a qualunque prezzo, al salutismo maniacale e ansiogeno, al terrore persecutorio per ogni cibo o bevanda, alla sbornia per le marche, alle deliranti spinte pubblicitarie, eccetera. La tendenza è di privilegiare, all’opposto, il piacere “del mangiare e del far da mangiare”, della genuinità semplice e a volte essenziale, dell’attenzione al giusto prezzo, del ritorno alle tradizioni ma con forti innesti di “viaggi gastronomici” in altre culture, della gioia personale e conviviale invece della penalizzazione doveristica. Trionfa quello che si potrebbe chiamare edonismo sostenibile mentre il Paese cambia senza rinunciare al suo antico, appassionato rapporto col cibo.